Un paio di dischi fatti apposta per i malinconici

Stefano Pistolini

Il benvenuto vada ai malinconici! Oggi un paio di dischi fatti apposta per loro, con tutti i crismi per cullare quel certo incancellabile spleen.

    Il benvenuto vada ai malinconici! Oggi un paio di dischi fatti apposta per loro, con tutti i crismi per cullare quel certo incancellabile spleen. In entrambi i casi la sensazione è quella di lavori fai-da-te, realizzati senza budget, dando una forma intima e narrativa all'insostenibile leggerezza delle proprie preoccupazioni. Non servono capitali, qui siamo ad anni luce dall'industria musicale, ma la piacevolezza è che i dischi si possono fare lo stesso, e anche gradevoli, grazie all'ispirazione, alle capacità e alle idee che ti girano in testa, al linguaggio musicale che sgorga con naturalezza e poi, sempre, col buon aiuto da parte di qualche amico.

    Cominciamo da un inglese, Bill Ryder-Jones, chitarrista di una band anni Novanta che ebbe discreta eco, i Coral, formatisi nei sobborghi di Liverpool e dediti a un curioso mix di britpop, country e psichedelia. Chiusa l'esperienza col gruppo, Bill ha dato strada alla sua vocazione primaria, immersa nella letterarietà. Prima ha pubblicato un album strumentale, intitolato “If…”, ispirato al romanzo di Italo Calvino “Se una notte d'inverno un viaggiatore”. Poi è tornato al prediletto formato-canzone e soprattutto è rientrato a vivere a casa della madre, a Liverpool e qui, complici le atmosfere intime, ha creato, in perfetta solitudine, questo nuovo album che brilla per eleganza e fluidità. S'intitola “A Bad Wind Blows in My Heart” e dalla critica d'oltremanica è stato subito assimilato all'onnipresente Nick Drake, ma a noi pare c'entri poco col perfezionismo introverso del cantautore di Tanworth-in-Arden. Piuttosto siamo vicini invece alle scapigliature, ciclotimiche e un po' disperanti, di Elliott Smith, o alle sensuali coloriture sixties di Robyn Hitchcock. Nei pezzi di Bill c'è parecchia ironia (assente nelle tracce di Drake), c'è una qual rassegnazione al disagio, c'è una pigrizia imperante, ma c'è anche una presa di coscienza dello stato di cose, che verrebbe da definire “molto inglese”, con titoli come “C'è un mondo tra di noi” o “Ti stai comportando come tua sorella”, cantati anzi, sussurrati su arpeggi di chitarra da Ryder-Jones, con uno stile vocale che richiama da vicino appunto quello dello scomparso Smith. Il disco è delicato e bello, se ne esce tranquilli e un po' bastonati. Il che, per i malinconici cronici, è uno stato naturale da cui ripartire in immersione verso la propria cosmica, ovattata solitudine.

    Ci spostiamo in Australia per dirvi dell'altro album, sebbene i panorami psicologici restino quasi gli stessi. Magari meno introversi, però altrettanto laconici e sperduti, dal momento che il giovane Fergus Miller da Melbourne è un altro esponente di quella slackness, di quell'indolenza condita di florilegi creativi, divenuta un sottogenere artistico degli ultimi vent'anni. Fergus agisce sotto la sigla programmatica Bored Nothing e con questa ha pubblicato il suo omonimo album d'esordio, che si rivela di qualità superiore. Certo, Fergus ha trovato il modo per far innervosire i critici anglosassoni, dal momento che la sua collezione di canzoni compone un mosaico dell'apatia giovanile, di cui lui stesso è esponente, con diversi anni trascorsi da semi-homeless, vagabondando per l'Australia e per i divani degli amici che l'ospitavano, stonato e in preda a una programmatica noia nichilista (poi, ci si crede il giusto: chi espone in modo così tecnico i propri stati d'animo, ci pare più un virtuoso della rappresentazione, che un perdente tour court). L'apertura dell'album è folgorante con “Shit for Brains” che i crismi di un singolo di successo, con una melodia accattivante, un riff di chitarra surf e un ritornello che dice: “Che c'è di sbagliato nel dormire? / messo a confronto con l'erba è più economico / ma i miei sogni mi tengono sempre sveglio”. Miller si dimostra subito un compositore e un esecutore raffinato, spiritoso, imprevedibile. Le sue composizioni tengono conto di Kurt Cobain e di Elliott Smith (again) e presentano soluzioni inattese, anche se lui si diverte a minimizzare: “La maggior parte del lavoro fatto per sviluppare il mio suono è stato guardare “Seinfeld” in tv e mangiare pizza congelata”. Il fatto è che questo gioco al ribasso non scalfisce la sensazione d'essere di fronte a un talento, anche se non si sa quanto effimero. L'album non ha momento deboli e dentro c'è una cultura musicale costruita con sapienza, a dispetto dell'istinto di schierarsi dalla parte di chi non ce la fa. L'indolenza appare un vezzo gentile, un formato difensivo. Quando poi, nella bellissima “Get Out Of Here”, l'occhialuto Bored Nothing sospira “Ho inciso su un albero / il tuo nome, il mio / e gli influssi del vino rosso da quattro soldi”, ecco che si offre un'altra chiave per decifrare il personaggio: Fergus sarà un inguaribile romantico, bisognoso di maschere e architetture difensive, dove nascondere le sue ambizioni. Ma chi, tra quanti sanno comporre canzoni così, nel cuore non desidera diventare l'ultimo poeta dei dolori di questa magnifica, terribile età?