I Vampire Weekend e i National. Ovvero due modi per capire cosa succede nel sound di New York

Stefano Pistolini

Cosa succede, parlando di musica, in città. La città è New York, dove adesso la primavera corre. E nell'aria risuonano le tracce di due nuovi album che sono una sintesi dello stato delle cose della musica locale, parlando di musica bianca (anzi, bianchissima – qui siamo nel territorio dalla pelle pallida, dalla buona educazione e dall'anagrafe che recita 20-40).

    Cosa succede, parlando di musica, in città. La città è New York, dove adesso la primavera corre. E nell'aria risuonano le tracce di due nuovi album che sono una sintesi dello stato delle cose della musica locale, parlando di musica bianca (anzi, bianchissima – qui siamo nel territorio dalla pelle pallida, dalla buona educazione e dall'anagrafe che recita 20-40). Sono dischi destinati ad avere eccellenti risultanze commerciali, in onore a una qualità elevata e a una sofisticatezza formale: “Trouble Will Find Me”, sesto titolo dei National e “Modern Vampires of the City”, terzo dei Vampire Weekend. Dai loro suoni e dall'attenzione che li circonda, si possono ricavare alcune riflessioni. La prima riguarda l'ormai conclamato cambio della guardia generazionale nel flusso della musica indipendente prodotta laggiù. Band come queste oggi rappresentano il maistream della scena della Grande Mela, come lo furono, chessò, i Talking Heads e i Television in anni diversi. Sono amatissime e segnano con chiarezza la direzione nella quale tante formazioni meno note cominceranno a guardare. Brooklyn, insomma, è divenuta adulta e s'è fatta una famiglia. Il quartiere che è stata la culla della ripartenza del suono autoprodotto a inizio millennio, nella necessità di ri-concettualizzare il rock sotto forma di musica per il tempo del web, è ora un valore storico e perfino turistico, in questo romanzo che s'allunga sempre più. Nel quale i National hanno diritto a un capitolo, sebbene a noi la loro musica continui a sembrare tanto debitrice verso gruppi che sprofondano in un passato più o meno lontano, che siano gli U2, ovviamente, ma perfino i Big Country e certamente i Coldplay – perché prima o poi andrebbero puntualizzati gli effetti diffusi e le risonanze della musica della band di Chris Martin su quelle d'oltreoceano. Il disco di Matt Berninger e compagni (che vengono dalla profonda provincia di Cincinnati, Ohio, e misero radici a Brooklyn parecchi anni fa, alla ricerca di un terreno artisticamente più fertile) è un lavoro maturo, curato, certo ridondante, nel quale finisce per essere un tantino ingombrante la seriosa voce baritonale del leader. I pezzi sono assemblati in chiave additiva, puntando ai crescendo eroici di cui Bono e Martin furono alfieri, drammatizzando  le stanze dell'amore, provando a dare al tutto un ambiente sonoro nobile e orgoglioso, con un certo sapore da “casi letterari” per lettrici di mezza età – ci fanno venire in mente “Il danno” di Josephine Hart, non chiedetemi perché. Se è la vostra cosa, se vi piace un suono con un centro predominante e tante decorazioni verso i margini, i National sono la vostra band, a coronamento di quella che sembra una dignitosa, sofferta operazione commerciale, fatta di talento, tenacia e buone dosi di astuzia e compromesso (il tanto vilipeso Chris Martin, in questo suo essere “onestamente di successo”, ci pare più istintivo e perfino più romantico).

    Delicatezza, artigianato e grazia
    Discorso diverso per i Vampire Weekend, i ragazzi della Columbia University che invece di assicurarsi una cattedra da professori in qualche altro college, hanno scelto, per ora, di vivere l'avventura della band. La loro crescita è sbalorditiva a dispetto di chi li giudicò dei fighetti dotati di gusto ma confusi quanto a progettualità musicale, visti gli inizi da rapper in odore di Beastie Boys e poi da balzani rivisitatori dell'afro-sound dell'high life. Ma quello è il loro passato. Il presente è questo disco scintillante, nel quale confluiscono proprio segnali newyorchesi di ieri e oggi, da Simon & Garfunkel a David Byrne, da Billy Joel ai Grizzly Bear, quest'ultimi certamente i loro parenti più prossimi. C'è delicatezza, artigianato, ispirazione e grazia, in questo cantico dei succhiasangue metropolitani, fino a farne una gemma raffinata con un valore culturale oltre che musicale, grazie soprattutto alla voce liquida di Ezra Koenig, e alle architetture armoniche ricamate dalle tastiere di Rostam Batmanglij. Magnifiche canzoni che ritraggono i marciapiede di New York meglio di un film di Amos Poe e spostano di mezzo secolo in avanti i languori indotti da “Wednesday Morning, 3 AM”.
    Ma in fondo, qui e adesso, a segnare il destino di questi due gruppi così diversi ma complementari nella ridefinizione di una scena metropolitana degna del miglior circuito di club del mondo, c'è un'altra realtà, che non è una novità, quanto il più potente strumento di promozione della musica d'oggi, ovvero la Rete dei blog e dei siti di recensione, da “Pitchfork” a “Consequence of Sound”, che proprio di band come National e Vampire Weekend fanno i beniamini, prima coltivati e ora celebrati nel momento del decollo. Se ci mettete pure quelle copertine, entrambe in bianco e nero, che fanno tanto “art rock”, si arriva a una conclusione banale ma tranquillizzante: tutto muta e si evolve, ma in fondo resta lo stesso. Siamo noi che passiamo. Ma quelli dopo di noi, si divertono sostanzialmente con le versioni aggiornate degli stessi giocattoli.