Quarant'anni fa la voce di Claudio Rocchi ha cambiato una generazione

Stefano Pistolini

Sarà cinico a dirsi, ma l'edificazione della società dello spettacolo, con la sua miriade di protagonisti, coprotagonisti e figuranti, ha come pendant la costruzione di un gran cimitero virtuale nel quale mettere a riposare coloro che ebbero un momento di celebrità.

    Sarà cinico a dirsi, ma l'edificazione della società dello spettacolo, con la sua miriade di protagonisti, coprotagonisti e figuranti, ha come pendant la costruzione di un gran cimitero virtuale nel quale mettere a riposare coloro che ebbero un momento di celebrità. Si allunga l'elenco di coloro che se ne sono andati il giorno prima, e a noi che restiamo viene da sorprenderci, commuoverci, sussultare. Un rituale ritmico, perché la proliferazione dei consumi ha prodotto una notorietà diffusa e poi, diamine, la notizia di una morte è sempre la più semplice da dare, si scrive da sola. Macabro e sorprendente, il quotidiano show dei defunti diventa un'agenda parallela, che comporta il sapere, l'esserci stati, la complicità e la partecipazione e finisce perfino a dare un qualche spessore al nostro andare avanti. Arriva la notizia della morte di un attore che ci è piaciuto per la sua diversità, il regular guy James Gandolfini, ventiquattro ore dopo che lo scartabellare tra i social network ci aveva detto che se n'era andato Claudio Rocchi. Notizia che non ci ha colto di sorpresa, perché qualche giorno addietro c'eravamo imbattuti nell'impressionante lettera-testamento che Claudio aveva inviato ad amici e ammiratori, dicendo che il suo tempo pubblico era concluso, che le sue condizioni fisiche si erano deteriorate, ma che era stato bello esserci, i rimpianti erano materia pesante, anche dal letto di dolore si poteva assumere un prospettiva che non fosse di disperazione ma di consapevolezza. Poi gli eventi sono precipitati e una mattina, del nome di questo artista quasi dimenticato, si sono riempite le pagine dei quotidiani, perché è sembrato che in fondo tutti lo conoscessero e che il suo passaggio artistico non fosse stato invano. Il fatto è che Rocchi è rimasto, nell'immaginario di alcuni, “giovane” più a lungo di quanto fosse effettivamente, quasi che il suo primo rivelarsi si fosse propagato all'infinito, garantendogli una permanente condizione di energizzata gioventù. Lui, invece, la sua strada l'aveva fatta, lunga e turbolenta. Dopo gli inizi da cantauatore politicizzato aveva subito prodotto lo scarto, assecondando gli istinti e le tentazioni, mettendosi sulla via di una ricerca mistica ed esplorativa al tempo stesso, quella dei viaggi in oriente, dei soggiorni in India e in Tibet, della comunione tra una caratterialità così italiana, anzi milanese, della Milano veloce, elettrica, impaziente e informata dei primi Settanta, e la sua vocazione apolide, l'irrequietezza, il culto del fare presto, di non conoscere confini, limiti, ostacoli. Così da cantautore in sintonia con un momento storico preciso, Rocchi s'è trasformato in avventuriero cosmico, viaggiatore senza posa, uno di quelli che ogni tanto incontri e vedi passare, che ha sempre tanti progetti in decollo, sempre un passo avanti agli altri, che parla con naturalezza delle idee più bislacche, anzi, attraenti. Di tempo, nel frattempo, ne era passato tanto. Ma nel nostro retropensiero Claudio era rimasto lo stesso, cristallizzato nello stato di grazia dell'eterna giovinezza profumata di patchouli e di prototecnologia freak. Seppellirlo fa che questa sua strana condizione resti tale, facendolo morire giovane, anche se anagraficamente non lo era più. I suoi gesti memorabili restano quelle straordinarie performance radiofoniche di quarant'anni fa, quando dai microfoni pomeridiani della Rai si rivolgeva ai coetanei, che l'ascoltavano asserragliati nelle loro camerette, parlando di mondi e voli magici che aspettavano lì fuori, solo ad avere la forza di cercarli, oltre i destini a cui pensavamo di dover ubbidire. Alle 16 Rocchi parlava a “Per Voi Giovani”, clandestine agnizioni di cui lui era il profeta, in un mare di ingenuità, di suoni spaziali e sogni. Ne parlammo di recente e Claudio ci disse che sì, effettivamente s'era reso conto solo più tardi, di quanti ragazzi italiani si fossero abbeverati alle sue parole sussurrate in quella piccola cospirazione domestica. E continuava a piacerci quel suo tono da hippie-chic milanese, ci ricordava tante cose, tante invidie, tanti desideri. Ci richiamava i suoi versetti, “Anche per oggi di questa rivoluzione non se ne fa niente”, la copertina di “Viaggio”, il suo disco che ci piaceva di più, quello di “Non è vero”, la canzone di Rocchi che preferivamo per come era easy e raccontava del giorno in cui lui aveva mentito a se stesso, s'era detto che voleva uscire a comprare le sigarette, ma in realtà aveva solo voglia di vedere lei. Riascoltate “Viaggio”, è bellissimo, racconta storie italiane di ieri, sensibilità, angosce, visioni. E ha una copertina meravigliosa: Claudio che cammina di spalle tra gli alberi di un parco cittadino, forse Parco Ravizza?, chissà dove sta andando, cosa l'aspettava quella mattina dei remoti anni Settanta, indaffarato com'era dietro all'ultima rivelazione, magrissimo e avvolto in quei vestiti striminziti, le giacchette aderenti che ti fasciavano e su cui s'appoggiavano capelli lunghi fino alla schiena.