Il rap è la letteratura migliore per raccontare il presente americano

Stefano Pistolini

L'ascolto delle stazioni radio americane soul-oriented di questi tempi è molto istruttivo. La migliore che si ascolta sulla costa orientale, K 97.5 che trasmette da Atlanta, è un vero termometro, utilissimo a capire le novità in atto.

    L'ascolto delle stazioni radio americane soul-oriented di questi tempi è molto istruttivo. La migliore che si ascolta sulla costa orientale, K 97.5 che trasmette da Atlanta, è un vero termometro, utilissimo a capire le novità in atto. E ce ne sono, di novità importanti. Prima di tutto il profondo, radicale rinnovamento che sta investendo la rap music, riscrivendone per l'ennesima volta le regole e ridefinendone la poetica più avvincente. Prima ancora, però, a colpire è il ritrovato ruolo trainante di questo suono, sulla spinta della sua capacità di evolversi, nuovamente proiettandosi a fare da traino all'intera scena musicale, con vaste implicazioni nel sociale giovanile. Ormai si è aperto un vero abisso tra il valore, i significati e il potere d'indiscriminata aggregazione di questa musica (ben oltre qualsiasi separazione o ostilità sociale), e i simulacri stantii delle altre musiche, sulla cui vitalità non possiamo giurare – se non nel caso di alcune produzioni autorali poco connesse alle catalogazioni di genere. Invece il rap non smette di essere proprio un genere, d'essere traversato da filamenti e capillari che s'intersecano tra loro e s'alimentano a vicenda, ma soprattutto non smette di cambiare, perché non ha mai sottoscritto il giuramento di fedeltà eterna ai soliti idoli (professato prima di tutto dal rock, secondo il quale fatto uno Springsteen, non è dato inventarne un altro, se non per imitazione o sottomissione). Nel rap invece s'invecchia presto, si tramonta, si passa il testimone, si diventa storia. Quelli che vengono dopo affettuosamente evocano i predecessori, ma altrettanto disinvoltamente proseguono per la loro strada. Basti guardare da dove questa musica ha preso le mosse trent'anni fa e dove sia arrivata oggi, nella sua inestinguibile metamorfosi, nel suo sovrapporsi di generazioni neppure si trattasse di ère geologiche. Tra i suoni americani di stagione il rap riveste di gran lunga il ruolo più importante. Sa descrivere quello che gli altri suoni non riescono neppure a intuire. Racconta realtà, mentre altrove s'alimentano miti e fandonie. Per questo è amato, rispettato, condiviso. Tanto più ora che, come dicevamo, sta andando in scena un ricambio profondo, che archivia – o semplicemente consegna alla pop story – dei personaggi che altrove si ritengono ancora irrinunciabili (qualche nome? Jay Z, o lo stesso Kanye West che pure s'è appena concesso un nuovo album molto particolare, nella sua urgenza di bizzarria e diversità). Il fatto è che sono cresciuti dei nuovi giovanissimi maestri, che dell'uso e riuso di questa musica hanno un'idea nuova e personale.  Qualche nome: Frank Ocean e Kendrick Lamar, dei quali ci siamo ben accorti anche alle nostre latitudini, ma che in America hanno rapidamente raggiunto lo status di rifondatori e profeti del suono ritrovato. Ma poi anche Wiz Khalifa, Drake, e tante potenti young guns come Future, Rich Gang, Ciara, solo per fare qualche. Quindi il laboratorio eversivo che ruota attorno ai collettivi Black Hippies e Odd Future, e in particolare alle ispirazioni di Tyler The Creator e di Earl Sweatshirt, ma anche di MellowHype, The Internet e di The Jet Age of Tomorrow (per quest'ultimi nuovissimo mixtape scaricabile gratis in rete). Ancora più curiosamente, il ruolo di padrino assoluto e riverito di questa evoluzione 2013, nel ruolo che ieri fu di Dr. Dre, adesso troviamo un personaggio dubitabile, poco carismatico come Lil Wayne, fresco di galera, ma uscito carico di energie e di voglia di collaborare con i suoi figliocci. Lil, con la sua vocina chioccia e nasale, non nega i suoi featuring a nessuno e assume un ruolo immanente nella riforma in atto, fino a diventarne il filo conduttore e la cartina tornasole. Ma, in sostanza, in quale direzione va il rap di questa nuvolosa estate americana? Nella direzione che gli indicano gli artisti appena elencati, scavando un solco nel quale oggi tutto l'hip-hop sembra ora convergere. Una vocazione che non parla più la lingua della consapevolezza politica e tanto meno quella del sessismo, delle vanità maschiliste, delle vanterie, del tutto & subito, del delirio consumista, al confine tra estasi e nevrosi. Piuttosto un discorso poetico fatto di intimismo, angosce sommesse, spaesamento, dubbi, ironia e un tangibile desiderio di riconoscimento all'interno del proprio gruppo. Rassegnazione e sentimento, fragilità e fatalismo. Storie normali, nascoste nel cono d'ombra di cui il rap oggi è il suono, prima di essere una grande consolazione transgenerazionale. In pratica la migliore letteratura possibile per raccontare il presente americano, al di là degli stereotipi. Sarebbe piaciuto a Fitzgerald, a Kerouac, a Burroughs. E sentire lontanissimi da qui i talenti narrativi di gente come Bret Ellis o Jonathan Franzen ci fa chiedere se la verità e la sua rappresentazione, alla fine, stiano da una parte o dall'altra.