George Martin e Morissey. Ovvero due buoni motivi per rifarsi le orecchie leggendo un libro

Stefano Pistolini

La notizia della settimana potrebbe essere quella di Paul McCartney che – in odore di promozione per il nuovo album “New”, fa il busker, il cantante di strada, in un angolo del Covent Garden, di venerdì all'ora di pranzo, dopo aver annunciato l'evento poco prima, via twitter.

    La notizia della settimana potrebbe essere quella di Paul McCartney che – in odore di promozione per il nuovo album “New”, fa il busker, il cantante di strada, in un angolo del Covent Garden, di venerdì all'ora di pranzo, dopo aver annunciato l'evento poco prima, via twitter. Inevitabili i raffronti con quanto avvenne 44 anni prima a pochi metri da lì, a Savile Row, sulla terrazza del palazzo Emi, quando per l'ultima volta nella loro storia i Beatles salirono su per suonare “live” ancora una volta insieme, in un'altra mattinata piovosa. Vecchi ragazzi che amano le sorprese, amano Londra e suonare per un pubblico da lasciare a bocca aperta. E vecchi, infallibili trucchi promozionali. Paul s'è messo lì, a 70 anni suonati, e ha intrattenuto la città con qualche nuova canzone. E' ciò che ha fatto per tutta la vita, e non smetterà adesso. A questo proposito segnaliamo la ripubblicazione di “L'estate del Sgt. Pepper” (La Lepre Edizioni), magnifico libro scritto da George Martin, il produttore dei Beatles, qui arricchito dall'introduzione di Stefano Bollani. E' una lettura appassionante per chi abbia vissuto in diretta quei fatti musicali, ma è anche un fantastico veicolo di conoscenza per chi sia arrivato dopo e voglia intercettare il sapore delle cose e l'aria dei tempi nella Londra della metà anni Sessanta, dentro e fuori gli studi Abbey Road dove i Beatles si predisponevano al capolavoro. Il libro è di una categoria speciale per un paio di motivi: prima di tutto perché George Martin si rileva uno scrittore fine ed elegante, maniacalmente attento ai particolari e sollecito nell'inquadrare i fatti specifici in una cornice più ampia, quella dell'epoca in cui avvenivano, in un'Inghilterra frenetica, elettrizzata ma ancora frugale. In secondo luogo è eccezionale l'angolazione da cui Martin osserva l'evolversi della creazione e la descrive: la sua capacità, lungo la storia del gruppo e la sua collaborazione coi Beatles, è stata quella di mantenersi in un punto perfetto tra il dentro e il fuori la band, un po' collaboratore e coordinatore della loro musica, un po' fratello maggiore col bernoccolo per gli esperimenti, un po', a tutti gli effetti, quinto Beatle. Martin ripercorre puntigliosamente gli episodi e le illuminanti invenzioni che dettero vita all'album e, ovviamente, il punto più alto del racconto coincide con l'iniziativa d'incidere “A Day in the Life” in una versione che non temesse concorrenza, portando in sala di registrazione un'intera orchestra, vincendo le sue iniziali resistenze da produttore oculato nei confronti del datore di lavoro – l'etichetta discografica (“Dissi loro: questa è la Emi, non Rockefeller”) – subito dopo lui stesso infiammandosi per l'intuizione di Paul. Alla fine Martin si limita a portare a Abbey Road un'orchestra di 41 elementi (scrive: “crepi l'avarizia”), più che sufficienti per partorire la performance indimenticabile. Poi, a coronamento dell'episodio, è lo stesso Martin a sprigionarne la visionarietà psichedelica, innocente e travolgente: dal momento che s'è deciso di spendere e che si fa qualcosa fuori dalle regole, che il tutto si trasformi in happening, in un party in abiti da cerimonia nel quale coinvolgere le teste migliori della Londra creativa di quel tempo: “Gli invitati giravano per lo studio lanciando stelle filanti e facendo bolle di sapone con piccole pipe. C'era nell'aria un'aria strana e pungente, ma poteva essere soltanto quella dei bastoncini d'incenso che bruciavano dappertutto…”. Capito lo humour sottile e la distaccata partecipazione di Martin a quelle giornate indimenticabili? “L'estate di Sgt Pepper” racconta un “come eravamo” – o forse semplicemente un “com'erano” – che è lontano, delicato, attraente, quasi struggente, ma che al tempo stesso è storia, passato assoluto, è memoria di cui documentarsi, salvo tornare a vivere le turbolenze del presente. Prima, la musica nuova la si suonava e viveva così. Oggi è diverso, più complicato. Siamo diventati grandi e – questa la sorpresa inattesa – è divenuta grande anche la cultura pop.
    Di libro in libro: sempre oltremanica si celebra con gran spolvero un'altra uscita. Quella dell'autobiografia di Morrissey (“Autobiography”), in cui l'ex-cantante degli Smiths concede una visione certamente incompleta, ma altrettanto succosa, del meglio della sua vita a suo insindacabile giudizio. Veniamo a conoscenza di un passato da atleta, dello sbocciare della sua omosessualità (il primo a spezzargli il cuore fu il chitarrista dei New York Dolls, sulla cover del loro disco), la passione per le soap opera e di quando Nick Kent, il più stimabile giornalista del punk, provò a entrare negli Smiths al posto di Johnny Marr. Altre leggende, altri ricordi, altre curiosità dei lettori, saziate o irrisolte. Lo sguardo all'indietro diventa fin troppo spesso postura d'elezione dei cultori del rock. Non bisogna però esagerare. Per la salute del nostro collo e per evitare di non vedere quanto di bello, nello stesso momento, ci sta venendo incontro. (sp)