I nuovi album di due mostri sacri del passato e la nuova prova dei Cani

Stefano Pistolini

Ma davvero questa è la musica che ascoltavamo vent'anni fa, con devozione, concentrazione e dedizione?

    Ma davvero questa è la musica che ascoltavamo vent'anni fa, con devozione, concentrazione e dedizione? E' la domanda che, con imbarazzo, ci viene su mentre abbiamo deciso di sentirlo, forse controvoglia, questo nuovo disco dei Pearl Jam, “Lightning Bolt”, decimo della produzione di studio di questa band-emblema del movimento grunge di Seattle, che ebbe (e ancora ha) tanti fan fedeli e leali ai suoi ideali di indipendenza della nuova musica. Del resto, al tempo, gli elementi c'erano tutti: prima di tutto un cantante, Eddie Vedder, che a dispetto di un physique tutt'altro che du rôle, seppe diventare un vero leader, un modello, un eroe, per l'irresistibile suggestione della sua timbrica, per la sua perizia tecnica, per l'emotività che sprigionava dalle sue corde vocali e per come ha saputo essere una personalità significativa in tante battaglie controculturali nella complicata America dei Bush. Quindi c'era il fattore musicale dei Pearl Jam, la capacità di declinare in un formato altamente passionale, un suono veloce, elettrico, pulsante. Ballate epiche e uptempo adrenalinici si alternavano nelle tracklist dei loro album, rigenerando la permanenza del rock come luogo di ritrovo di chi fosse alle prese col problema di crescere, di maturare, o forse addirittura di non staccarsi da come s'era stati. Insomma i Pearl Jam sono stati una di quelle band-grandi madri che hanno funzionato un po' da babysitter e anche da navi scuola per un'infinità di ragazzini di tutto il mondo e che adesso hanno la ventura d'essere ancora qui, mentre i ragazzini sono diventati padri di famiglia e buttano l'occhio con apprensione alla notizia che loro ci sono ancora, che hanno un disco di canzoni nuove che forse suoneranno travolgenti come quelle del passato. Difatti loro sono ancora lì, il loro suono è identico a quello del passato, Vedder canta ancora magnificamente, i Pearl Jam sono a tutti gli effetti la versione classica di loro stessi e “Lightning Bolt” è un album dignitosissimo che certo non delude le aspettative. Se non fosse che siamo, irrimediabilmente, cambiati noi. Ed è sconcertante rivederci, immaginarci, seriamente avvinti al cospetto di questo onesto rock americano da stadio, fatto di sensualità semplice, di un esile tessuto rappresentativo, bisognoso di un'adesione infantile alla dimensione del suo progetto. Ascoltare questo disco dà la precisa sensazione di un percorso fatto (fatichiamo a dire quale) che non prevede inversioni o ritorni, se non per fare del turismo culturale o sentimentale. La dimensione del “genere”, della “declinazione” come fu il grunge – musica che voleva dare forma e contenuto a una collettiva sensazione d'ansia e sconcerto, sebbene più teorica e giornalistica che reale – non sopravvive al passare del tempo, se non come testimonianza di un'epoca. Risuonarla oggi seguendone il canone, come fanno disciplinatamente i Pearl Jam, produce un'operazione di passatismo che finisce per essere quasi dolorosa. “Lightning Bolt” lo sistemiamo nello scaffale dove abbiamo appoggiato “New”, l'album appena uscito di Paul McCartney che a settant'anni suonati si ostina (assecondando l'istinto della sua natura) nel proporre versioni aggiornate di quel suo canzoniere che, giustamente, ha esaurito le scorte presentabili. Certo, ciò che fanno McCartney e Pearl Jam merita rispetto, affetto e ammirazione. Il problema è che non ci fa stare troppo bene, a parlarne, qui, oggi, in termini di musica e di presente.

    Oltre i pariolini di 18 anni
    Riavvicinandosi a casa e all'anno 2013, si chiama invece “Glamour” il sospirato secondo album dei Cani, band romana che tiene celate le identità dei suoi componenti, ma che fece colpo un paio d'anni orsono col celebre pezzo sui pariolini di 18 anni. Ovviamente la seconda prova è la più difficile, è quella della auspicata conferma o della fragorosa caduta, ma gli alfieri della innovativa etichetta 42 Records hanno preso di slancio l'impegno, partendo da una decisione clamorosa e al tempo stesso al passo coi tempi: “Glamour”, prima ancora di arrivare nei negozi, viene pubblicato dai titolari in streaming integrale su YouTube, a disposizione di chiunque sia troppo impaziente per aspettare il cd o il vinile o sia troppo spiantato per comprarselo (o, come ipotizzano gli stessi Cani, sia troppo ansioso di parlarne male, come dell'ennesima delusione). Invece “Glamour” è un gran bel disco, una conferma che ripropone, raffinandolo, l'accoppiamento tra un'elettronica malleabile, morigerata, lieve e sincopata e dei testi sciolti e divertenti, che raccontano storie di vita vissuta di oggi, tra le peripezie vere e immaginarie di un giovane romano. La lingua è giusta (“ho paura di tutto”, attacca saggiamente uno dei pezzi migliori), i voli non sono pindarici ma neppure economici, c'è un realismo involontario, ironico e dolceamaro. Soprattutto c'è un gusto, una civiltà della canzone contemporanea, italiana ed espressiva, che ci trova solidali e interessati. Non parleremo di descrizione di una condizione, per carità. Però, tutto sommato ci andiamo vicino.