Una stagione passata e un album, “Foetus”, che aiuta a ricordarci da dove viene il suono italiano

Stefano Pistolini

Correva l'anno 1972, primavera, periodo scolastico. Spettacolo pomeridiano, per gli studentelli liceali sbarbati.

    Correva l'anno 1972, primavera, periodo scolastico. Spettacolo pomeridiano, per gli studentelli liceali sbarbati. La location, il benemerito teatro Pierlombardo di Milano, che all'epoca, con molte cautele e parecchi rischi, tentava sortite nel mondo dei concerti rock – il tempo era quello della musica gratis per tutti, autoriduzione e cancelli sfondati. Sul palco artisti italiani nuovi e  seducenti. La settimana prima c'era capitata la ventura di vedere quel tipo strano di Alan Sorrenti, che sembrava più americano che nazionale, lunghi capelli, silhouette fina fina, la voce che evocava Tim Buckley. Aveva fatto le canzoni di un album che doveva ancora pubblicare, si mormorava per la stimabilissima etichetta d'oltremanica Harvest, con la collaborazione di musicisti internazionali. C'era piaciuto, era suonato complice, in particolare quell'invocazione “vorrei incontrarti ai cancelli d'una fabbrica” che per i comunisti immaginari del tempo era l'ideale riscrittura di “Rocco e i suoi fratelli”, in fondo andato in scena non lontano di lì solo una decina d'anni prima. Ma la sorpresa fu un'altra, nascosta dietro un nome sconosciuto: Franco Battiato, che il suo disco d'esordio l'aveva pubblicato e veniva sostenuto dai programmi radio di qualità della Rai, indicatori e fonti d'informazione primaria per gli appassionati. Di lui si sapeva ancora poco, soprattutto della sua stravagante natura caratteriale. Sì, era un siciliano salito a Milano, che aveva coltivato con cura il sogno musicale e gli aveva dato forma con rigore e disciplina. Qualche anno più tardi, alla fine degli anni Settanta, un amico mi portò a conoscere Franco nel suo appartamento milanese, e l'impressione fu di empatia e semplicità, per quanto nel frattempo il successo gli avesse già arriso. Una casa spoglia, una mamma che si preoccupava di sapere in quanti ci saremmo fermati a mangiare gli spaghetti, strumenti musicali disseminati in una stanza che aveva l'aria impermanente di quella di un fuori sede. Però, tornando a quel pomeriggio lontano, ciò che Battiato aveva preparato per il concerto con cui si presentava in grande stile al pubblico dei ragazzini informati, era di tutt'altro tenore. Indosso aveva una tuta arancione, un po' da astronauta, un po' da scienziato pazzo. Dal palco fino alle poltrone della prima fila aveva fatto scendere un gran tubo di plastica trasparente, nel quale si sarebbe infilato nel corso di alcune delle sue canzoni, come fossero le viscere di un corpo umano. Infatti “Foetus” si chiamava l'album presentato con solennità, per quanto inizialmente stridesse con la criniera di capelli ricci che gli sormontava la testa piena di spigoli. Un santone stravagante in odore di Zappa, si sarebbe detto, con una band impegnata a rispettare lo spartito d'uno spettacolo provato allo sfinimento, lui diviso tra cantati interpretativi, al limite della declamazione e lunghi – per l'epoca rivoluzionari – assoli di sintetizzatore, il modello monofonico Vcs3 che avrebbe scritto pagine di musica rock (in quel rapporto erotico con lo strumento nuovo, prima di lui, avevamo visto solo Brian Eno, dietro il pannello dell'Arp con cui dava senso  alla musica dei Roxy Music). Battiato ci impressionò, ebbe la forza di convincerci d'essere il modello originale e italiano dello sperimentatore rock, e noi virgulti non avevamo altro da dirgli che “benvenuto. Pronti a seguirti”. Per questo motivo poi, negli anni, ho faticato a ricollocare Franco in una dimensione diversa da quella, a riconoscere l'intransigente solitudine solipsistica della sua ricerca, il suo gusto per certo esoterismo, la sua condizione quasi esule in un pop del quale però non ha mai saputo fare a meno. Ma dunque, per uno di quegli scherzi oggi possibili con la musica digitale, nel corso delle uggiose feste di Natale, una sera ho deciso di fare l'esperimento: scovare “Foetus” e riascoltarlo, perlomeno trent'anni dopo l'ultima volta. Per stare a vedere l'effetto che avrebbe fatto, tenendo a bada gli ingannevoli richiami dell'evocazione, che possono essere sirene ipnotiche. Beh, ve ne parlo, perché l'esperienza è stata suggestiva e vi invito a rifarla.

    Come eravamo e Battiato
    “Foetus” non è un'opera assoluta e senza tempo, come, chessò, un disco di Nick Drake, che ancora pare registrato ieri. No, ha la polvere degli anni, ma anche la lucentezza del progetto netto, dell'idea chiara, ha l'impeto della poesia, lo slancio dell'ingenuità, la convinzione del pensiero, lo spessore della creazione. Le sue canzoni “progressive” parlano del corpo e dello spazio, della scienza e della mistica. Lo fanno per allusioni semplici, con melodie magnifiche affidate a una voce sottile come un fioretto. Si resta immobili a seguire questo viaggio breve e lontano. Battiato diventa un poeta assoluto d'un passato che dobbiamo cominciare a collocare. La sua musica contribuisce a raccontarci la nostra storia. Un “come eravamo” culturale e popolare che dobbiamo sbrigarci ad annettere al ragionamento sulla nostra natura. E sul come diavolo siamo diventati in questo modo.