Lanterns On The Lake
A Londra s’avanza un bel quintetto con un nome formidabile. Da seguire
Elogio della normalità. O della banalità. Dunque, in America ci sono questi posti curiosi, di solito nell’ambito dei centri commericali suburbani più modesti e popolari, non quelli fatti come monumentali hangar, ma come una schiera di negozi monopiano che abbracciano un enorme parcheggio. Sono i “chinese buffet”, non dei semplici ristoranti cinesi, ma piuttosto degli sterminati self service dove – a prezzo fisso e secondo quella logica del eat-all-you want che seduce sempre i residenti – si vaga tra banconi con enormi vassoi che presentano cibi già pronti. Ti riempi il piatto, torni al tavolo, mangi e, se ne hai voglia, ti rialzi e parti per un secondo o terzo giro. Paghi 10 o 12 dollari e passa la paura. Sono uno dei passatempi preferiti delle famiglie povere, soprattutto nei weekend, quando arrivano a reggimenti in posti del genere. Divertenti, un po’ squallidi, con un cibo che di solito sfiora un’onesta sufficienza. In uno di questi chinese buffet, perso in un chissà dove, alle propaggini del Queens, ha scelto di suonare una cult-band della zona, che invece fa proprio della sofisticatezza intellettuale del suono, la propria prerogativa.
Si chiamano Real Estate e hanno documentato il tutto in un piccolo documentario che trovate su You Tube (cercate “Real Estate” e “Chinese Buffet”), divertente per i curiosi musicisti che presenta, per il suono non trascurabile di cui costoro sono capaci, e soprattutto per la visione d’insieme di questa America periferica, qualsiasi, in una sera senza pretese, in un posto come tanti, dove però finiscono per convergere opportunità e scenari che – facile immaginare i motivi – finiscono per diventare un sottile oggetto del desiderio. Quanto ai Real Estate è presto detto: vengono dal vicino New Jersey e sono insieme da 5 anni, e sono i tipi più qualunque che potete immaginare, occhiali, barbe e pancette, ovvero una specie di antidoto vivente ai Grammys Awards, però misteriosamente (lynchianamente?) più affascinanti. Sono dei cocchi della critica Usa più sofisticata – quella dei dischi che non vendono – hanno due album all’attivo e un terzo, “Atlas”, in uscita.
Suonano una musica strana, ipnotica, perfino narcotica, direi – ma piacevolmente. Canzoni lente fatte di soffici intrecci chitarristici, lunghi e complicati ricami a tessere la tela nella quale ti ritrovi avvolto, quella che poi va sotto il nome di “ambiente sonoro”. Le voci sono spesso assenti, o registrate bassissime, sullo sfondo, con studiata noncuranza. I pezzi si occupano di cose piccole, oppure evocano, ricordano, prendono la forma di uno di quei flash che ci traversano la mente quando siamo occupati in cose noiose e di routine, e abbiamo bisogno d’un rifugio verso il piacere o verso un’emozione, sia pure virtuale. Il risultato ha un senso, sia da un punto di vista musicale, che sotto forma di creazione intellettuale. Il fatto che poi tutto ciò arrivi da questi tre piacevoli trentenni, che conosceremmo volentieri proprio per l’apparente inconsistenza delle loro biografie, per quelle facce naturali, quelle camicie da supermarket, ci lascia piacevolmente storditi e attratti. Perché per l’ennesima volta, da un buco inatteso, in questi formati di casualità, ha ripreso forma davanti a noi il miracolo chiamato America.
Motivo per cui è ora di stoppare le suggestioni e cercar altro. Per esempio una cosa che arriva da Newcastle, UK, e che sta producendo notevole rumore di questi tempi. E’ un quintetto col bel nome Lanterns On The Lake, che ha pubblicato due soli album, il primo passato sotto silenzio e il secondo “Until The Colors Run” che sta invece regalando una veloce celebrità alla band. Ben meritata, perché il contenuto è eccellente, anche se non sono sicuro che l’etichetta di “pop sinfonico”, rapidamente attaccata al disco e al gruppo, renda veramente l’idea. Per darvi i parametri, metterei i LOTL in un punto intermedio tra i Procol Harum di “Grand Hotel”, i King Crimson e soprattutto i Cocteau Twins.
La loro prerogativa più visibile è l’appassionata voce di Hazel Wilde, che conduce la danza con toni melò, sospiri, gemiti e magistrali sussurri. Poi c’è tutto il mondo musicale alle sue spalle: un sistema complesso, nel quale spiccano un gran pianoforte, a volte dolce e minimale, altre volte martellante, e quindi un ricco progetto di chitarre elettriche con tanto di autentici assoli, e poi ottoni e archi a profusione, e nell’insieme una grandeur inattesa, per questi tempi di digitale sottomissione. Il disco è vasto e importante e preclude a notevole celebrità per i suoi titolari. Loro, del resto, alle spalle hanno una label discografica splendida come la Bella Union di Simon Raymonde (che è stato il loro pigmalione). E per di più scrivono canzoni che si occupano di cose tangibili, mica di favole - della decadenza del nord Inghilterra industriale e dei fallimenti del Partito Conservatore. Roba autentica, per ridare un po’ di rock a gente reale. O viceversa.
Il Foglio sportivo - in corpore sano