Tame Impala e Foxygen e il ritorno della grande stagione della pscichedelia musicale
Kettering, Northamptonshire – pancia del Regno Unito – è un posto dove c’è poco da stare allegri. Primo comandamento per teenagers: prendere il più in fretta possibile il treno per Londra, per non annegare nella noia della provincia britannica del XXI secolo.
Kettering, Northamptonshire – pancia del Regno Unito – è un posto dove c’è poco da stare allegri. Primo comandamento per teenagers: prendere il più in fretta possibile il treno per Londra, per non annegare nella noia della provincia britannica del XXI secolo che, nella maggior parte dei casi, è peggio di quanto si possa immaginare sugli standard italiani. Poi, adesso che l’industria delle scarpe s’è decentralizzata verso oriente e i grandi marchi hanno speditamente chiuso i loro capannoni, al tedio s’è aggiunta una depressione economica violenta, che spinge una città così verso i margini del benessere britannico di facciata. In questi posti, se non altro, vale ancora un assunto che ha salvato da scelte radicali buona parte della gioventù inglese dell’ultimo mezzo secolo: se non hai di meglio da fare, metti su una band. Inventa qualcosa, datti un tratto distintivo, scava fino a intravedere il barlume, coltivalo, lucidalo e infine, naturalmente, corri alla stazione a prendere il famoso treno per Londra, biglietto sola-andata (“Da dove vieni?” “Kettering” “Mmmm, ti capisco”). Consideratelo un antefatto, che però ha valore biografico. Dunque, i Temples. Sono la band di cui in queste settimane va di moda parlare oltremanica. Soprattutto da quando una mattina Noel Gallagher, il padrino degli Oasis, s’è svegliato nel buen retiro di Belsize, ha sbadigliato e ha comunicato ai cronisti che i Temples sono la migliore band brit del momento e che i media dessero loro ciò che meritavano. E’ bastato, perché in UK va così – l’idea della cometa, del fenomeno più veloce della luce li affascina sempre, lo trovano la cosa più sexy. I Temples stanno avendo copertine, servizi fotografici, interviste. Si presentano tirati a lucido: carini da morire, vestiti aderenti e con l’elemento folle al posto giusto, quei tagli di capelli mid-sixties da urlo, col frangione sovradimensionato o coi riccioli a sboccolare attorno alle giovani teste. Ma che musica suonano questi nuovi portenti d’Albione? Pura, purissima, fotocopiatissima psichedelia britannica anni Sessanta. Ecco rispuntare Kettering: gli interminabili pomeriggi nelle cupe Midlands, a consumare i testi sacri fino ad apprendere ogni segreto dei modelli, esercitando l’arte della perfetta ricostruzione. Partite da “Revolver” dei Beatles, dal primo solco di “Tomorrow Never Knows”, scendete giù per “Their Satanic Majesties” degli Stones e poi Arthur Brown, Pink Floyd, fino ai Soft Machine e all’opus di Marc Bolan. Spruzzate il tutto di “Blow Up” e di “David Hemmings look”, di sogni multicolori e – come ha perfidamente insinuato un giornalista locale – “di un consumo assente o troppo moderato delle giuste droghe”. E avrete “Sun Structures”, l’album dei Temples che va a gonfie vele e che s’è fatto notare da qualche divo ansioso di mostrarsi a la page. Il gioco è fatto: a giudicare dal carnet dei Temples, il futuro della band è rosa, a dispetto del fatto che spararle addosso sia diventato lo sport preferito dei recensori intransigenti. Thomas Warmsley e James Bagshaw, i leader della band, hanno capito l’antifona: si presentano affabilmente come modernisti musicali appassionati di archeologia, rendono omaggio a misconosciuti eccentrici di 50 anni fa, giocano la carta del revival come rinascita. Il disco, sia chiaro, è gradevolissimo, ben fatto, ma è fermo, stantio, soprattutto è fatto di pura retorica. I Temples sono la più precisa, talentuosa delle cover band e nulla di più. Perché allora parlarne? Perché siamo disarmati di fronte alla recessione creativa che ha avvolto l’Inghilterra, che è stata la terra dei nostri sogni, oramai cronicamente incapace di produrre qualcosa di nuovo, che non possa ricadere coerentemente alla voce “ristampe di musiche giù sentite”. Di psichedelia sono tornati a interessarsi anche altrove, in Usa o Australia ad esempio, ma progetti come Tame Impala o Foxygen, per quanto approssimativi, hanno una cifra di contemporaneità che qui è frigidamente impensabile. Il che è macabro, residuale. Però, a margine di un recente viaggio nella desolazione della provincia britannica – esperienza istruttiva, anche per la capacità, molto inglese, di tenere invisibile agli sguardi indiscreti questa grama realtà – viene da pensare che tutto cominci dove oggi abbiamo aperto la rubrica: nella pochezza di adolescenze spese, di questi tempi, nella Gran Bretagna lontana dalle luci di Londra e delle altre metropoli. C’è poco e c’è tanto storidimento, non latitano solo le opportunità – da quelle parti mai state fiorenti – ma si è prosciugata l’autartica capacità di generare espressione originale, che è sempre stata all’origine dei sommovimenti e dei rinnovamenti della musica inglese. Finendo poi a strombazzare compiaciuti attorno a un disco di dignitosa psichedelia anni Sessanta “rifatta” come questo. Un’operazione inerte. Che diventa sconsolante se venduta come novità, nel malconcio scenario musicale locale del presente, intontito di talent show, blairismi, sorrisetti e “tutto va bene”.
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