La seconda vita di Damon Albarn
Parka una volta, parka per sempre. Se sei cresciuto indossando quello che impropriamente in Italia per decenni abbiamo chiamato “eskimo”, il giaccone impermeabile foderato di economica pelliccetta, puoi tranquillamente continuare a farlo a 47 anni e oltre.
Parka una volta, parka per sempre. Se sei cresciuto indossando quello che impropriamente in Italia per decenni abbiamo chiamato “eskimo”, il giaccone impermeabile foderato di economica pelliccetta, puoi tranquillamente continuare a farlo a 47 anni e oltre, perché quell’indumento ti rappresenta e ti appartiene – con tutto ciò che di frugale, malinconico e bohémien a cui allude. E’ il caso di Damon Albarn, divenuto famosissimo in quanto cantante dei Blur e inventore del bizzarro progetto di danza esotica Gorillaz, con cui a più riprese ha sbancato le classifiche. E che ora, in piena mezza età, è arrivato al fatale primo appuntamento col disco solista. Sulla copertina, per rimandarsi ai posteri, ha scelto di sedere su uno sgabello indossando – appunto – parka e scarpe Clarks, e con un sorrisetto timido contribuisce a definire la proposta: eccomi qui a raccontarvi come tutto è cominciato (attenzione: con un birignao cockney che fa venire i nervi e seduce al tempo stesso: provate a sentire cosa diventi la parola “church” in bocca a lui), a dirvi senza vergogna cosa c’è sotto e a confermarvi che sono sempre io, non più fresco come una rosa, ma sempre il tipo che avete la ventura di seguire da quand’ero un ragazzino talentuoso e belloccio. Perciò ascoltare “Everyday Robots” diventa, dalle premesse, un capitolo dell’infinita saga This Is England, dove gli intellettuali di un popolo diviso tra Dickens, Orwell e lo snobismo di Lord Richard Buckley (a cui Damon affida l’incipit del disco, con una registrazione anni Cinquanta in cui Buckley grida: “Non sanno dove stiano andando, ma sanno che dove sono ora, non è dove volevano andare”), aggiungendo un altro tassello alla descrizione del perché lo spleen lassù sia malattia cronica e il mondo moderno sembri spazzatura.
La critica, in particolare quella dei connazionali, appare divisa nel giudicare l’esordio solistico di Albarn. I simpatizzanti lo carezzano, apprezzandone lo sforzo di sincerità, la compostezza compositiva, l’eleganza del tocco e la piacevolezza degli abbellimenti tematici. Per esempio il versante memoir suburbano dell’opera, i titoli in cui Damon s’affida al come eravamo, in un’infanzia passata nella nowhere land alle propaggini londinesi, in un posto chiamato Leytonstone, oppure quando rievoca la leggendaria ondata di caldo del 1976 o racconta i tremori del primo giorno di scuola, allorché cominciò a capire che il mondo non era soltanto una questione di declinazioni della Britannia. Musicalmente dominano i downtempo apatici e rilassati e spicca l’amichevole partecipazione di Brian Eno, che conferisce un tocco di classe all’aria di sofisticato dilettantismo che tira in tutto il lavoro – compreso il rapporto elementare ma funzionale con la tecnologia, utilizzata dando sempre l’impressione di non aver perso tempo a leggere il manuale d’istruzioni, utilizzando i preset e facendoseli bastare.
Lo stesso karma di Jovanotti
Gli antipatizzanti hanno messo l’accento sul fatto che anche “Everyday Robots” confermi la sensazione che Damon Albarn sia un perenne progetto incompiuto, che la sua carineria abbia supplito troppo a lungo alle carenze artistiche, che la sua superficialità sia stucchevole e che le sue moine contenutistiche, lo spleen borghese, il rimpianto per una nazione che non esiste più e per i suoi rituali, l’amore nel pomeriggio e le tentazioni d’autodistruzione, siano un repertorio stantio e iper sfruttato. C’è del vero in questo, ma altresì noi – che ci schieriamo a sostegno di questo disco, che ci piace anche per certi suoi tic un po’ banali – siamo convinti che il pop non sia la terra dell’innovazione costante, ma piuttosto quella del ritornello ripetuto in coro e del reciproco riconoscimento, in quanto aderenti a codici se non addirittura a un culto, qualsiasi esso sia. Dunque fin dalle battute iniziali della bella title track, in cui Damon ci racconta come “Automi quotidiani coi nostri cellulari / nel processo di ritorno a casa”, con la voce indolente e terribilmente sexy, vi invitiamo a seguirlo nella galleria dei ricordi e dei suoi momenti migliori. Dargli corda è divertente e l’ambiente musicale in cui ci conduce è piacevole, stravagante, pieno di suoni marocchini, echi dub, cori infantili, fin quando il tutto diventa un universo non di grande consistenza, ma di condivisibile vivibilità. Lo stesso mondo pop grazie al quale un ragazzo sveglio e di discreto talento ha saputo diventare una star, perfino un idolo e un modello, senza troppa consapevolezza e con tanto narcisismo (“You and Me” è la storia del rapporto tra Albarn e l’eroina, mai chic come in questa occasione). Damon ci fa pensare a Jovanotti, non per somiglianze musicali, ma per risonanze anagrafiche che sfociano in alcuni modi d’essere sincronici: c’è un estetica e c’è un etica, c’è una scommessa e la voglia di provarci. Non c’è mai stata una convizione assoluta e neanche un sistema filosofico compiuto, a sostenere il tutto. Ma c’è stata fortuna e capacità di piacere. Una volta, da altre parti, lo chiamavano karma.
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