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Maledetta maratona

Mauro Berruto

La tragica corsa di Francisco Lázaro a Stoccolma 1912 e la vita resiliente di Emil Zátopek. Due libri, due storie per capire la maratona

Fu un filologo e glottologo francese, Michel Bréal, a proporre al Barone de Coubertain di inserire nel programma della prima edizione dei Giochi Olimpici moderni, Atene 1896, una gara di corsa che commemorasse l’emerodromo ateniese Filippide. Si dice che quel soldato-messaggero, nel 490 a.C., corse da Atene a Sparta (237 km) per chiedere rinforzi contro l’esercito persiano stanziatosi a Maratona e poi da Sparta ad Atene per portare la risposta. Filippide, dunque, era un ultramaratoneta (474 km in quattro giorni!), mentre colui che corse i circa 40 km da Maratona verso Atene, armato di tutto punto, per urlare “Abbiamo vinto!” e poi spirare a causa della fatica, pare fosse un altro. Al netto delle leggende resta il fatto che la maratona, da sempre, intreccia la sua essenza con la fatica, il dolore, la morte più o meno metaforica. Maledetta fu la maratona olimpica di Stoccolma 1912, dove trovò la morte, al trentesimo chilometro, il giovane portabandiera portoghese Francisco Lázaro. Si era spalmato il corpo di cera e grasso animale per difendersi da un insolitamente caldo sole svedese e non pensò alla necessità del suo corpo di traspirare durante la corsa. Errore fatale. La sua vicenda è stata romanzata da José Luís Peixoto in libro commovente, Il cimitero dei pianoforti (Einaudi, 2010). Vita e morte si rincorrono, si sfiorano, si accarezzano nel racconto che sovrappone le voci di un padre e di un figlio. Nel laboratorio di falegnameria di famiglia c’è una stanza sempre chiusa, stipata di pianoforti malconci. Il cimitero dei pianoforti, appunto, metafora esistenziale. Peixoto fa parlare Lázaro in prima persona, in uno stream of consciousness alla James Joyce. Ogni chilometro diventa un capitolo dove l’atleta, che corre simbolicamente di fianco al lettore, ricorda, filosofeggia, arranca, combatte. Il passo dalla corsa, vuoti di ossigeno inclusi, dà ritmo alla lettura in un crescendo drammatico, fino alla caduta. Non una sconfitta, ma la morte del protagonista lì sulla strada, a dodici chilometri dal traguardo. La solitudine e la fatica ritornano nella storia di un altro maratoneta leggendario, nato a Praga nel 1922: Emil Zátopek. Se un giorno si farà il tentativo di raccontare la storia contemporanea attraverso l’epica sportiva, alla voce Primavera di Praga, comparirà quest’uomo capace di cambiare paradigmi.

 

Rick Broadbent in un libro che si intitola: Emil Zátopek, una vita straordinaria in tempi non ordinari (66thand2nd, 2018) prova a riassumere una vita resiliente, fondata su un mantra: la fatica, intesa come presupposto irrinunciabile e che si manifesta in una perenne smorfia di dolore sul viso. Una maschera che lo caratterizzerà in ogni fotogramma scattato sulle linee dei tanti traguardi tagliati per primo. Non ho talento a sufficienza per correre forte e sorridere allo stesso tempo, diceva Zátopek, genialmente. Il capolavoro, l’impresa imbattibile per ogni altro umano, arriva ai Giochi Olimpici di Helsinki, 1952. Emil Zátopek vince i 10.000 e i 5.000. Pochi minuti dopo la fine di questa seconda gara, il 24 luglio 1952, sua moglie Dana vince la medaglia d’oro nel lancio del giavellotto. Giorni di grazia, quelli, che lo spingono a partecipare, per la prima volta della sua vita, alla maratona. E a vincerla in 2 ore 23 minuti e 4 secondi.

 

Zátopek, icona del suo paese, arringherà poi la folla durante la Primavera di Praga e firmerà il Manifesto delle duemila parole di Ludvík Vaculík. Duemila parole contro il regime, dirette a operai, contadini, impiegati, scienziati artisti che lo porteranno a finire a lavorare in una miniera di uranio, per punizione.

 

Correva come se avesse un cappio al collo – scrive un cronista dell’epoca – lo spettacolo più spaventoso dai tempi di Frankenstein.

 

Sì, animale spaventoso la maratona, ma affascinante perfino agli occhi di un poeta: Amo l’atletica perché è poesia. Se la notte sogno, sogno di essere un maratoneta. Parola di Eugenio Montale.

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