Lsd per creativi
Le startup degli integratori. In California cinquant’anni dopo tornano gli psichedelici. Non per lo sballo, ma per lavorare di più e meglio
San Francisco. Cinquant’anni fa a San Francisco arrivava un pullmino variopinto battezzato Oltre, che portava in Alta California il gruppo dei Merry Pranksters, gli Allegri Burloni, guidato dall’autore di un certo successo editoriale, Qualcuno volò sul nido del cuculo. Lui si chiamava Ken Kesey e col ricavato del libro, scritto rigorosamente sotto peyote, comprò il bus e partì per un viaggio coast to coast per spalancare occhi e recettori tramite Acid Test, con questa droga allora di nicchia ma legale, l’Lsd. Era poco prima dell’Estate dell’Amore, e un giornalista già famoso, Tom Wolfe, era stato spedito in California perché sulla East Coast c’era lo sciopero dei poligrafici. Da quel reportage sarebbe nato un classico americano, The Electric Kool-Aid Acid Test, dove si raccontava lo sgangherato road trip di questa band lisergica in cerca della condivisione universale, con incontri a base di Lsd nel succo d’arancia (il Kool-Aid in questione) ma anche di Hells Angels, di Grateful Dead, con una spruzzata d’Allen Ginsberg. Era una grande stagione per questa droga già sperimentata dalla Cia e poi introdotta dal dottor Timothy Leary più a sud, in Messico. Oggi, cinquant’anni dopo, sulle stesse tratte si aggirano i Google bus che trasportano in Silicon Valley i travet creativi che progettano il futuro, ma sarà un caso o il genius loci tossico, comunque l’Lsd, insieme ad altre droghe e droghine più nerd, è tornato di gran moda.
Con usi e utente però molto differenti: qualche mese fa in città si è tenuto l’ennesimo meetup dell’associazione “San Francisco Peak Performance”, organizzata dal suo paladino George Burke, teorico del microdosing, che si traduce in quantità minime di Lsd. “Microdosing” è la parola d’ordine che senti ultimamente alle feste e alle cene, qui: ma non per sballare; per lavorare meglio. A spiegare meglio il nuovo utilizzo dell’acido c’era sul palco una leggenda della psichedelia californiana, lo psicologo James Fadiman, già autore di una Psychedelic Explorer’s Guide, secondo cui “il microdosaggio rende più creativi, più a proprio agio, meno soggetti a emicrania”. “Il microdosaggio significa prendere un decimo rispetto alle dosi classiche da sballo, appunto di Lsd” dice invece Burke al Foglio. “Chi lavora in Silicon Valley oggi cerca sostanze per ottenere performance migliori”. “Possono essere integratori, smart drugs, si può andare dalla semplice caffeina alla vitamina B, a medicinali su ricetta come il modanafil, un farmaco utilizzato contro la narcolessia, alle microdosi appunto di Lsd. Con le microdosi non si ottengono gli effetti classici dell’acido, come lo sballo e le visioni, ma una migliore concentrazione, una migliore reattività”, ci dice Burke. “Una miglior connessione tra pensieri e parole”.
Pensieri e parole stanno ingenerando qualche timore però in Silicon Valley, che dovendo distinguersi non usa certo la coca come quei burini di Wall Street. “Credo che abbiamo un problema di droga”, dice la dottoressa Molly Maloof, terapeuta e consulente medica di startup. “Molti imprenditori e manager per esempio prendono il Ghb per dormire. E sai perché non riescono a dormire? Perché hanno preso sostanze eccitanti durante il giorno. E per cosa? Per lavorare di più”. Ma chi sono questi consumatori? “Persone che devono scrivere molto, organizzare molto, fare presentazioni, riunioni, telefonate, e che trovano il microdosaggio molto utile in queste attività”, spiega Burke (ma anche in altre attività usuranti come fare la moglie, come Ayelet Waldman, sposa californiana dello scrittore Michael Chabon che qualche settimana fa ha detto che il microdosaggio di Lsd ha salvato il suo matrimonio).
Chi non si spinge fino alla microdose o al Ghb, detto anche droga dello stupro perché mette una certa allegria tra le lenzuola, fa volentieri uso dei “nootropics”, cioè superintegratori non per il fisico ma per il cervello. “Nootropics” è una parola inventata nel 1972, sono sostanze a cavallo tra gli integratori e le droghe, perché alterano, migliorandole, le capacità cognitive. Un mix perfetto tra la vecchia cultura tossica e la nuova dei “supplements”, che se finora hanno riguardato amminoacidi proteine vitamine per dimagrire o farsi più velocemente la tartaruga ora puntano finalmente sul cervello.
Ecco così una Silicon Valley tossicona ma medicalizzata, che va all’attacco di un mercato annuale, quello dei supplementi dietetici, che vale 121 miliardi di dollari in America; ma qui parliamo di diete molto speciali. Paladino dei “nootropics” è un signore che si chiama Dave Asprey e ha fondato un impero su questi nutrienti. Asprey, che teorizza l’uso di modanafil, aniracetam e nicotina che si inietta coi cerotti da ex fumatori, ha coniato la definizione di “biohacking”, cioè di manomissione del corpo umano per farlo rendere di più. “E’ l’arte e la scienza di cambiare l’ecosistema intorno e dentro di te, per avere maggiore controllo sulla sua stessa biologia”, ci dice ancora Burke con un lessico un po’ da figli dei fiori. Cinquant’anni dopo però a nessuno qui interessa lo sballo, si perde solo tempo e ci sono i mutui e le Tesla da pagare.
Saliamo dunque al decimo piano di un palazzone di vetro nel centro di San Francisco, non lontano dagli uffici di Twitter e Uber, arriviamo all’ufficio 1025 per andare a rendere omaggio alla “startup più hot della Silicon Valley” secondo Time. Si chiama Nootrobox, tra i suoi investitori ci sono Andreessen Horowitz, leggendario fondo di investimento, una Mediobanca siliconvallica, e Marissa Mayer, numero uno di Yahoo. Aristocrazia siliconvallica, insomma. Nootrobox secondo quello che si dice in giro è la “pusher” di droghe legali per i meglio unicorni della valle. Di sicuro è un caso raro di startup appena nata ma con i conti in attivo. L’ufficio, però, una gran delusione, ci si aspettava una mansion tipo almeno uffici di Vice a Milano, atmosfere da Bret Easton Ellis, invece è un ufficetto piccolo vagamente fantozziano, che guarda su North Beach e i suoi antichi fasti beat con la libreria di Lawrence Ferlinghetti. I cinque ragazzi che smanettano dentro, tutti sotto i trent’anni, coi loro computer Mac, difficilmente sapranno chi è; ma rispetto al consueto interior decoration startupparo non ci sono neanche i soliti dispenser di merendine: alle pareti invece libri di neurologia e biochimica, e quintali di barrette e barattolini, è una via di mezzo tra un ambulatorio e la cassa di un Autogrill.
Ci viene incontro Geoffrey Whoo. Il ceo, 28 anni, ha un misterioso strumento nero Motorola in mano, che controlla continuamente; essendo nella startup più fica della Silicon Valley ci aspettiamo qualunque cosa (forse è un vecchio telefono ipervintage, o un registratore per registrare l’intervista). Ci sediamo. “Col mio cofounder ci siamo conosciuti a Stanford, studiavamo entrambi computer science”, dice Geoffrey, origini asiatiche, nato a Los Angeles, molto a suo agio, poco nerd. Mentre era appunto a Stanford ha inventato un localizzatore Gps che ha venduto poi a Groupon per decine di milioni. Il cofounder Michael Brandt, 28 anni pure lui, invece è biondo e viene da Chicago, è stato subito preso nel programma Assistant Product Manager di Google, una specie di Circolo della Caccia qui.
“Siamo la prima generazione di informatici non sfigati”, mi dice convinto Woo, che non ha per niente l’aria da spacciatore. “Quel film, The Social Network, ha cambiato tutto. Prima i migliori di noi andavano a Wall Street, ora tutti vogliono studiare informatica”. Loro nello specifico sono due fieri biohackers. Ma che vuol dire? “Mettiamola così. Pensa all’iPhone. L’iPhone è lì da dieci anni, le dimensioni sono più o meno quelle, ma è stato migliorato e perfezionato rispetto alla versione iniziale, si è lavorato sulle sue funzioni, migliori fotocamere, che hanno reso possibile Instagram, gps che ha reso possibile Uber. Come imprenditore insomma mi sono reso conto che sulla tecnologia non c’era più niente da migliorare, andava trovato un altro campo d’azione da migliorare". Nello specifico, “il corpo umano”, e il luogo dove risiede il suo sistema operativo, cioè il cervello: “Io lo definisco approccio ingegneristico al corpo umano, per testarlo e ottimizzarlo” (nel frattempo continua a controllare l’affarino nero).
Il business di Nootrobox, come insinua la parola, è una scatola: un pacco di farmaci che al prezzo di 135 dollari al mese ti arriva direttamente a domicilio. E’ uno Spotify della pillola, con un packaging molto Apple. Apriamo la scatola nera di cartone, l’interno è bianco, sembra quella di un iPhone 7 solo che dentro ci sono dei vasetti di pillole invece che un telefono. Anche i nomi sono molto Apple: al mattino devi prendere la pillola che si chiama Rise, la sera per dormire Yawn, a metà pomeriggio Sprint. Dentro, una quantità di sostanze: nel Rise c’è una tale bacopa monnieri, una rhodiola rosea e una a-GPC. In Sprint c’è invece caffeina, L-theanina e vitamina B, che dovrebbe garantire 4 ore di concentrazione (va preso alla bisogna, agisce entro mezzora, l’abbiamo provato per scrivere questo articolo); nello Yawn, melatonina, L-teanina, glicine e magnesio citrato che dovrebbe garantire otto ore di sonno – “Io non metto mai la sveglia, mi sveglio dopo otto ore perfettamente riposato”, dice Woo, mentre avvicina lo strumento nero al braccio, e a quel punto non si resiste e si chiede cosa sia mai: “Oh, è un misuratore di glicemia Bluetooth, niente di che”. “Sai, sono tre giorni che non mangio”.
Come non mangia? “Ah, sì, qui dentro nessuno mangia da tre giorni. L’ultimo pasto l’abbiamo fatto domenica sera. Stiamo benissimo, stai molto meglio sai, molto più focused, concentrato. Seguiamo infatti la dieta delle 60 ore, cioè ogni settimana facciamo 60 ore di digiuno. Gavin invece fa la 23:1”. Al digiuno non si era preparati. Cerchiamo di capire. Chi è Gavin, e cos’è la 23:1? “Chiediglielo tu”. Andiamo allora nell’altra stanzetta, Gavin è un ragazzotto mulatto dall’aria molto sana, “ex atleta al college”, dice Woo, e Gavin che qui si occupa del servizio clienti tutto fiero dice che fa solo un pasto al giorno, e nelle 23 restanti ore niente, neanche un boccone di pane. E la mattina? “Un bel bicchiere d’acqua, e le mie pillole!”. Gavin sta benissimo, naturalmente, va in palestra e prende una quantità di integratori. (Forse questo digiuno semitossico funziona veramente, i ragazzi rispondono alle email in trenta secondi, alla richiesta di intervista, “certo vieni tra mezz’ora”). Woo ci spiega meglio: “le nostre abitudini alimentari, sono tutti condizionamenti dell’industria. Siamo abituati a fare tre pasti al giorno. Ma non è sempre stato così. Nell’antica Roma si mangiava una volta sola. Sono le aziende alimentari che hanno interesse a farci mangiare sempre di più. Anche il mito della prima colazione: pensa agli interessi dell’industria dei cereali!”. Così allora adesso loro digiunano tutti insieme, “è diventata una cosa comunitaria, anche molti nostri clienti stanno cominciando a digiunare. Il nostro stile di vita non è mai naturale, dipende tutto dalle rivoluzioni industriali, pensa a quanto sport e quanta palestra si fa oggi, e trent’anni fa nessuno si sognava, si facevano ancora lavori manuali. Oggi si lavora praticamente solo col cervello, ecco perché dobbiamo renderlo più performante”.
Così, tra un digiuno e l’altro, per rendere performante questo nostro vecchio sistema operativo i due startupper-pusher spediscono ogni mese lo scatolone di pillole a 20.000 clienti tra cui vipponi siliconvallici (“non posso certo dire i nomi, ma ci sono molte persone che avrai visto in televisione”) e pure nel resto degli Stati Uniti. Ma è legale? “Beh, con gli investitori che abbiamo noi non possiamo certo metterci a spacciare sostanze proibite”, dice Woo, anche se “il confine tra legale e illegale sta diventando sempre più labile, e se un alieno scendesse sulla terra non si capaciterebbe di come vengono trattate certe sostanze: l’alcol è legale, l’Mdma che fa meno male è illegale; la marijuana è illegale in molti stati mentre le sigarette sono legali e ai bambini danno l’Alderall che è pura anfetamina”. “Tutto questo probabilmente cambierà”, riflette Woo. “La marijuana probabilmente sarà l’apripista per uno sdoganamento graduale delle droghe, la chetamina, l’Mdma”, dice. “Sai, qui in Silicon Valley le persone sperimentano un po’ di tutto, Ghb non ne ho mai visti sinceramente però le microdosi di Lsd per lavorare sì, ne conosco tanti. Ma se guardi alla tossicità, l’Lsd fa molto meno male dell’alcol”.
Ma gli startupper-pusher fichetti non vogliono certo finire in galera e poi hanno azzeccato il marketing giusto: come Apple ha soppiantato gli smanettoni e reso sottili ed eleganti i computer, così loro rendono l’essere nootropicali un’esperienza esteticamente rilevante: il loro sito è bellissimo, l’interno della scatola nera è super hipster con la sagoma di un bagaglio e dentro delle cuffie, degli occhiali, è un bell’oggetto, i barattoli sono di vero vetro.
E poi ecco il loro bestseller, si chiamano Go Cubes e sono chewing gum di caffè in tre gusti (caffè, latte, cappuccino), che hanno vinto il premio di miglior prodotto al South By Southwest, fondamentale festival dell’innovazione che si tiene ogni primavera in Texas. I Go Cubes racchiudono cinquanta milligrammi di caffeina, che però è a lento rilascio, più L-teanina, un amminoacido contenuto nel tè verde, vitamina B3, B6 e B12, più altri ingredienti incomprensibili che ne fanno una specie di Pocket Coffee-Frankenstein che promette mostruosa concentrazione. “Non volevamo sembrare dei freak che vanno in giro a smerciare pasticche. Un chewing gum è molto più accettato”, dice Woo. I pocket coffee per startupper verranno commercializzati presto anche in tutti i negozi, non solo online. “In cinque anni i nootropics faranno parte della dieta di ognuno di noi”, assicura. Varie startup hanno già richiesto questi chewing gum per distribuirli gratuitamente ai loro dipendenti. Così arriveranno in ufficio già concentratissimi dopo aver ruminato sul Google bus. E chissà cosa ne direbbero i loro antenati, quegli Allegri Burloni che sul loro pullman psichedelico volevano solo sballarsi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano