Nel 2012 Robert Lustig scrisse in un articolo su Nature che lo zucchero, quanto a dipendenza, è uguale all’alcol (sopra, un’illustrazione di Norman Rockwell del 1953)

Dolcissimo killer

Michele Masneri

Uno spettro si aggira per l’America: altro che grassi, è lo zucchero la causa di tanti mali. E la sua lobby non lo diceva a nessuno

San Francisco, dal nostro inviato. Altro che Wiki, la nuova battaglia in America nasce qui in California con un leak ben più grave di quelli presunti russi o di quelli di Chelsea Manning, soldato o soldatessa appena graziata dal presidente uscente (un Watergate della zolletta). Mentre è ancora vivido il ricordo della ex first lady Michelle Obama a dimenarsi, cantando o solo ballando, in ogni programma tv per sensibilizzare masse adipose sui rischi dell’ingrassamento, ecco giornali e trasmissioni che finalmente hanno trovato il nuovo male assoluto della dieta: lo zucchero.

 

L’ultima botta arriva dal saggio appena uscito nelle librerie, “The case against sugar”, bestseller opera del divulgatore Gary Taubes, che paragona il glucosio al tabacco, e lo accusa di essere la causa non solo di diabete e obesità, ma anche di Alzheimer, ipertensione, malattie coronariche e cancro (manca solo l’Aids, forse perché non si muore più). Ma a supportare questo libro, e a scatenare la guerra globale alla dolcezza, c’è la ricerca di una dentista americana, la dottoressa Cristin E. Kearns, e un articolo scientifico uscito a novembre sul Journal of the American Medical Association e rimbalzato poi su tutti i giornali del mondo. L’articolo denunciava che l’industria dello zucchero ha pagato scienziati per anni per occultare gli effetti del glucosio su cuore e arterie (e pance), e spostare invece l’attenzione sugli incolpevoli grassi, espulsi da ogni dieta per cinquant’anni.

Per anni la lobby dello zucchero avrebbe pagato dunque per far passare i lipidi come il vero nemico delle arterie d’America. E chi ci ricompenserà adesso di tutti i fritti non mangiati, del burro non versato, del prosciutto orribilmente mutilato? Eccoci dunque all’Università di California-San Francisco, dove tutto è cominciato, e dove un plotone di scienziati ha scatenato l’attacco al carboidrato. Soliti interni da incoraggiare fughe di cervelli: atrio lindo e arioso, biblioteca aperta a tutti e lussuosa come una lounge di aeroporto, studenti non fuoricorso dall’aria civile coi loro Mac, baretto sfizioso, ritratti dei fondatori, vista sulla baia e libri in consultazione (in prima fila Hillary Clinton, Hard Choices).

 

Accanto alla biblioteca c’è il centro antitabacco più famoso del mondo, alle pareti pubblicità d’epoca della Camel, trasformate come in quadri di Mimmo Rotella: un cow boy con una sigaretta che si piega all’ingiù, e la scritta: “Impotent!”. E’ il regno del professor Stanton Glantz, pioniere delle lotte alle sigarette, che adesso è passato allo zucchero, forse non a caso, forse fiutando la nuova temperie salutista: per questi incerti anni Dieci chi trova un nemico trova un tesoro. Protagonista però non è lui ma la sua assistente, la dottoressa Kearns, graziosa e gentile studiosa da Portland, Oregon, una Erin Brockovich sugarfree. Lei è l’autrice dello studio che massacra lo zucchero e riabilita i grassi. E’ lei che ha scoperto tutto, ecco la sua storia dolceamara e molto americana.

“Nel 2007 lavoravo a Kaiser Permanente, un grosso gruppo della sanità privata americano, come capo di un team di dentisti”, racconta al Foglio. “A un certo punto mi accorsi che in tutta la letteratura scientifica sulle malattie nessuno toccava il problema dello zucchero, anzi consigliavano nelle diete per i bambini il tè freddo commerciale, pieno di zuccheri aggiunti, mentre nessuno metteva in correlazione alcuna malattia, neanche il diabete, con l’eccessivo consumo di zucchero”. “Allora – prosegue – mi sono sempre più appassionata al problema, fino a licenziarmi e a fare ricerca esclusivamente su questo tema, finché mi sono imbattuta, nell’Università del Colorado di Denver, negli archivi della Great Western Sugar Company, grande azienda dello zucchero chiusa negli anni Settanta. Trovai questi scatoloni che erano lì per caso, mi misi a studiarli e dentro c’era di tutto, da vecchie riviste a contabilità e poi documenti riservati, insieme a foto della consegna della Incudine d’Argento, il più prestigioso premio nazionale delle pubbliche relazioni in America, che nella primavera del 1976 era stato conferito alla Sugar Association, l’associazione dei produttori di zucchero, per aver contribuito, recitava la motivazione, a ‘forgiare l’opinione pubblica’”.

L’opinione pubblica dal Dopoguerra era stata effettivamente forgiata bene, perché aveva attribuito ogni male al grasso e al colesterolo. “Un documento del 1954 del presidente dell’associazione suggerisce di aumentare il consumo di zucchero sostituendo i grassi: testualmente si legge che ‘se prendiamo la dieta dell’americano medio e gli togliamo il 20 per cento di calorie derivanti dai grassi, e le sostituiamo con lo zucchero, il consumo medio pro capite aumenterà di un terzo’. In seguito, dice sempre il presidente, ‘l’associazione investirà per convincere persone senza una minima conoscenza di biochimica che lo zucchero è ciò che ci tiene in vita e ci dà l’energia per andare avanti ogni giorno’”.

 

Kearns ha trovato poi non una ma molte pistole fumanti: “Dopo molte fotocopie di documenti – continua la dottoressa – mi resi conto che come dentista non avevo molta credibilità né accesso a centri di ricerca, così mi sono messa in cerca di Gary Taubes, che era già un autore celebre per il suo libro Perché si diventa grassi, che avevo letto con interesse”, (Taubes è il Saviano antizucchero americano, autore di una già celebre copertina del New York Times Magazine con una zolletta di zucchero in controluce che pare cocaina), oltre che oggi di The case against sugar. “Ma alle mail Gary non mi rispondeva ed ero quasi rassegnata, quindi ho scoperto che sarebbe stato in città a presentare il libro e allora mi sono messa in fila per farmi autografare la mia copia e poi gli ho detto, rischiando di passare per stalker, che mi ero licenziata per colpa sua, e gli ho parlato delle mie ricerche. Grazie a lui ho avuto accesso ad altri archivi: all’Universita dell’Illinois ho scoperto che negli anni Sessanta un certo professor Roger Adams era anche consulente della lobby dello zucchero; poi all’università della Florida, altro materiale sull’industria cubana dello zucchero. E infine a Harvard un altro professore, Mark Hegsted, docente di nutrizione, era pure pagato dai produttori di zucchero”. Il caso di Hegsted è quello più eclatante perché nella tripla veste di docente, di dipendente degli zuccherifici e di dirigente del ministero dell’Agricoltura, non solo ammorbidì uno studio che metteva in guardia dagli effetti dello zucchero sulle arterie, ma contribuì a delineare le linee guida sull’alimentazione nazionale del 1977, che deprecavano una dieta ricca di grassi, mentre tanti zuccheri avrebbero tenuto tutti di buon umore. Le case produttrici avrebbero insomma pagato Hegsted e altri due docenti per rivedere, integrare, ammorbidire, addolcire è la parola giusta, la letteratura scientifica.

 

Oggi i protagonisti dello sugar gate sono tutti morti, le case produttrici si difendono, all’epoca non erano obbligate a denunciare le proprie sponsorizzazioni, non c’è niente di penale, però la pacchia per lo zucchero è finita, e la pancia del paese, che negli anni si è notevolmente gonfiata, vuole sapere, vuole verità anche amare.

 

“Portavo a casa le copie, avevo la casa piena di questi documenti sullo zucchero, sembravo matta. Poi sono venuta qui, e sono entrata nel team del professore Glantz”, va avanti la dottoressa Kearns. L’Università di San Francisco del resto ha una grande tradizione antizucchero: qui insegna anche Robert Lustig, che in un articolo su Nature nel 2012 sostenne che lo zucchero è uguale all’alcool in quanto a dipendenza. Il primo articolo di Cristin Kearns appare invece a doppia firma, con Gary Taubes sul bimestrale di giornalismo investigativo Mother Jones, ed è il segnale d’attacco nella guerra mondiale allo zucchero. Poi l’articolo di novembre. La guerra è cominciata.

L’industria corre ai ripari. Vale 20 miliardi di dollari di fatturato in America, 142 mila posti di lavoro sono a rischio. Sparare contro lo zucchero è il nuovo sport nazionale. Però questo mondo del cibo, diciamo alla dottoressa Kearns, è molto violento, ha bisogno continuamente di nemici, sempre nuovi. Un anno il vino rosso fa venire il cancro, quello dopo guarisce dal cancro. La soia fa benissimo, anzi no, uccide in quanto Ogm. “Bisognerebbe sempre andare a vedere chi finanzia le ricerche che poi finiscono per influenzare l’opinione pubblica”, dice lei. “I media poi gli vanno dietro spesso poco criticamente”. Ma lei a mano a mano che studiava le sue carte cambiava anche dieta? “Mah, guardi, già stavo modificando le mie abitudini, dato che abitavo a Portland, dove tutti mangiano molto biologico, poi ho letto Michael Pollan e vari altri libri. Lo zucchero non l’ho eliminato del tutto, è impossibile del resto. Prima bevevo la Coca-Cola a colazione, poi sono passata alla Diet Coke, poi ho smesso del tutto”. Anche perché, scusi, dottoressa, ma i dolcificanti dietetici non fanno pure peggio? “Eh sì”. E lo zucchero di canna? “Lo zucchero è zucchero, è la stessa cosa. Alla gente piace pensare che siccome è marrone, è biologico, è integrale, allora non farà male, ma è sempre zucchero”. Ce l’avete propinato per anni. Maledetti. Ma grassi ne mangia? “Ma sì, bevo il latte la mattina, mangio il bacon”. Olio di palma, ci dica una parola definitiva su questa emergenza. “L’olio di palma idrogenato qui da noi è bandito, quello non idrogenato comunque comporta grossi problemi ambientali. Poi immagino che dietro ci sia una forte lobby”. Ok, è tutta una questione di lobby. Ma non sarete anche voi pagati da qualcuno, allora? L’industria del burro, il Bilderberg dello strutto? “No”, ride, “nessuna lobby”. E poi: non sarà come in politica, che a mettere tutto sullo stesso piano poi la gente si butta sul junk food? Se lo zucchero fa male come le sigarette, a quel punto, scusi dottoressa, ma io ricomincio a fumare. “Oddio, questa è una prospettiva originale, indubbiamente”, ride ancora. “Ma c’è una relazione molto stretta, sa, tra lo zucchero e le sigarette. Il direttore scientifico della Sugar Association poi andò a lavorare per l’industria del tabacco, io ho visto i documenti che lui mandava ai suoi nuovi datori di lavoro, diceva, ehi, ragazzi, guardate che grandi risultati ho ottenuto là, è chiaro che lo zucchero ha fatto da apripista alle sigarette come strategie di comunicazione. Poi infatti negli anni Ottanta e Novanta non a caso le industrie del tabacco sono entrate nel settore alimentare, con Philip Morris che si è comprata Kraft”.

 

A questo punto nella sala riunioni arriva il professor Glantz, è proprio uno di quei professori universitari americani dei film, ha una grande pancia non si sa se dovuta a zuccheri o grassi. Una camicia a scacchi, affabile e burlone, andiamo nel suo studio: foto di bambini con gli occhiali sulla scrivania, vari mug, un vecchio articolo di giornale ingiallito con lui e la didascalia: “Inizia la guerra alle sigarette”. Ha appena finito una riunione con degli allievi, in cui mangiavano tutti delle insalate seduti a un elegante tavolo di legno chiaro. Insomma professore, perché queste battaglie tra grasso e zucchero? “Ci sono due grandi settori industriali, e nessuno dei due vuole essere quello cattivo, tutti vogliono incolpare l’altro. Poiché di cibo ne avremo sempre bisogno, l’industria non è che può scomparire, e bisogna decidere quale sarà a fare da protagonista. Nel tabacco è diverso, a lungo le aziende hanno negato che facesse male, fino a che non sono più riuscite a nasconderlo. Con gli alimenti invece si cerca sempre di scaricare la colpa su qualcun altro”.

Ma alla fine fanno più male i grassi o gli zuccheri? “Ma che ne so. Penso che non sia una buona domanda”, dice. “Ognuno di noi ha bisogno di un po’ di grassi, e un po’ di zuccheri”. Sembra possibilista. “Noi poi col nostro studio non è che abbiamo stabilito quanto fa male lo zucchero o i grassi; abbiamo semplicemente dimostrato che le aziende dello zucchero hanno tentato di nascondere e falsificare i risultati di ricerche precise”.

 

Però siamo così contenti quando mangiamo lo zucchero. Si dice quanto sei dolce, per fare un complimento. Non quanto sei fat, grasso. E’ un fattore culturale? Di nuovo, le lobby? Ci pensa su. Poi: “Mi viene in mente un aneddoto: negli anni Venti c’era questo personaggio, Edward Louis James Bernays, era considerato il padre della pubblicità moderna, era nipote di Freud, fu assunto da American Tobacco per promuovere il fumo tra le donne, che allora non erano clienti perché era considerata una cosa per niente femminile”, spiega il professore antifumo convertito all’anti-zucchero. “Allora si inventò una campagna che si chiamava ‘Reach a Lucky instead of a Sweet’; nei ristoranti di lusso, al tempo, si usava il carrello dei dolci, e lui vi fece mettere dei pacchetti di Lucky Strike; e poi fece affiggere nelle città delle grandi foto di donne grasse col doppio mento, che si rimpinzavano di dolci, e altri invece con delle modelle magrissime che fumavano sigarette. Fece anche sponsorizzare uno studio che dimostrava i pericoli dello zucchero sull’organismo. Nacque così il mito del fumo che fa dimagrire. L’industria dello zucchero andò fuori di testa”. Era il 1928, novant’anni fa.

 

Ma lei, professore? Dieta stretta? “Ma veramente il prosciutto lo mangio. Magari tolgo il grasso con la forchetta”. E dolci niente, vero? “Veramente, ieri sera mi son fatto anche una fetta di torta. Anche se devo fare attenzione, perché mia moglie è molto maniaca dell’alimentazione e mi sgrida moltissimo”.

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