Stripe di miliardi
Ecco la startup “buona” e ormai ricchissima dei due fratelli irlandesi under 30 che hanno reinventato il sistema dei pagamenti online
San Francisco. C’è una startup ragazzina che non avete mai sentito nominare, ma se avete comprato qualcosa su Internet l’avete quasi certamente usata.
Si chiama Stripe, è la piattaforma di pagamenti elettronici utilizzata da Twitter, da Kickstarter, dal leader del commercio elettronico Shopify, da Salesforce, da Pinterest, da Deliveroo, e dall’azienda di ride-sharing Lyft, l’anti-Uber.
Creata dal nulla in sei anni, Stripe vale oggi 9 miliardi di dollari, è di proprietà di due fratelli irlandesi non ancora trentenni appena entrati nella lista Forbes dei mega ricchi mondiali. Patrick e John Collison, ventotto e ventisette anni, hanno appena strappato la palma di più giovani miliardari del mondo a Evan Spiegel, fondatore di Snapchat.
I fratellini Collison vengono da una famiglia middle class irlandese, i genitori gestivano un piccolo hotel su un lago derelitto, senza “nient’altro che mucche ululanti”, hanno confessato al Financial Times. L’inizio della fiaba è pura Silicon Valley, entrano nelle migliori accademie, Harvard e Mit, abbandonano com’è d’obbligo, fondano una prima startup che rivendono per 5 milioni di dollari, poi mettono su Stripe che si avvia a diventare il più grande sistema di pagamenti per l’ecommerce al mondo. La seconda parte della fiaba è più divertente. Ma prima, occorre parlare di business.
Ci avviamo verso il quartier generale di Stripe, un portavoce serissimo ci intrattiene per un’ora, dice che intervistare i fratelli è impossibili, tutti li vogliono, lui pure non vuol essere citato, dunque facciamo finta che non ci siamo mai stati.
Entriamo nel consueto loft nella zona di Soma (South of Market), ex agglomerato di concessionarie di macchine e negozi di materassi e oggi distretto startupparo. Zainetti e magliette Stripe accatastate (ma non ci danno niente, mannaggia), bar giganteschi con bibite ed enoteca, vini italiani e francesi e varie acque minerali, addirittura, sembra una lounge d’aeroporto per ragazzini. Pezzi di meccano nella sala d’aspetto. Nessuno ovviamente sopra i trent’anni. Colori fluo. Sembra lo Smaland dell’Ikea, mancano solo le palline.
I genitori gestivano un piccolo hotel su un lago derelitto, senza “nient’altro che mucche ululanti”, hanno detto al Financial Times
Poi però sorveglianza con telecamere pazzesche e check-in che va fatto in anticipo, da casa (registrandosi ad apposito sito, come per un volo transcontinentale). Colpisce sempre il contrasto in queste aziende dall’estetica ludica con le sicurezze fantozziane-old economy, rigidità e protocolli e uffici stampa severissimi.
Ma sono in gioco tanti soldi: Stripe fa infatti da tramite tra venditori e clienti nel commercio elettronico, settore ancora tutto da mungere, a proposito di mucche, soprattutto da noi: in Italia siamo fermi al 5 per cento, in Francia 6 per cento, 7 per cento in Spagna. Così arrivano i fratellini irlandesi. “Vogliamo far aumentare il pil di Internet” è il loro mantra. “Far crescere nuove imprese ovunque, non solo in Silicon Valley”. Eccoci pronti. “Mentre quasi tutti gli aspetti correlati alla creazione di un'attività sul web stavano diventando più semplici, i pagamenti erano rimasti legati a servizi e prodotti antiquati” dicono. “Abbiamo lanciato Stripe nel settembre 2011”, hanno raccontato al Financial Times. “Se pensi a come si vende e si compra online oggi, niente è cambiato rispetto a trent’anni fa, ancora oggi devi dire il numero della tua carta di credito esattamente come ieri. Una delle rivoluzioni che c’è stata nell’e-commerce è che oggi facciamo tutto col telefono grazie al 3G e al gps, l’altra rivoluzione che non è ancora compiuta è quella del sistema di pagamento. Ancora oggi dobbiamo dare decine di dati, riempire form. Ieri mi sono comprato un MacBook nuovo e ha un lettore di impronte digitali, questo è ottimo, basta appoggiare il dito e puoi fare acquisti”, ha detto convinto John Collison, il giovane, cofondatore (Patrick è il ceo).
Se sei uno sviluppatore, copi e incolli poche strisce di codice, altrimenti usi una delle app che vendono, che sono ancora più facili. In pratica in dieci minuti sei pronto a comprare o vendere. Anche per le grandi aziende è un bel cambiamento: quando Uber è nata, per esempio, aveva oltre 100 ingegneri a lavorare solo sulla parte dei pagamenti (occorreva creare dei server, inventare una infrastruttura, creare accordi con le banche, eccetera). Oggi la piccola concorrente Lyft, grazie a Stripe, nello stesso settore occupa 2 persone. La particolarità di Stripe è anche che non ci sono oneri sul fronte del cliente, mentre il venditore paga una fee dell’1,4 per cento sulle transazioni.
“Vogliamo far aumentare il pil di internet” è il loro mantra. “Far crescere nuove imprese ovunque, non solo in Silicon Valley”
Partita come sistema di pagamenti, Stripe vuole però diventare una specie di commercialista/notaio online: con la nuova piattaforma Atlas “ti consente di creare la tua società, di aprire un conto in banca, di fare la dichiarazione dei redditi, di ricevere fatture e pagamenti”, dice John, cofondatore. “Non solo in paesi come gli Stati Uniti e l’Europa ma anche in quelli in cui può essere più complicato, come ad esempio l’Egitto o il Pakistan”.
Naturalmente poi Stripe ha misure di sicurezza avantissimo, controlli antifrode che beneficiano della immancabile intelligenza artificiale e dei big data, calcolando le probabilità, un sistema che si chiama Radar e che mette in pre-allarme il venditore (partendo da una banca dati complessissima ma da nozioni semplici, come gli utenti che hanno troppe carte di credito, o che fanno molti tentativi di pagamento).
Nella multinazionale tascabile dei pagamenti lavorano 600 persone, tra San Francisco e varie sedi europee (l’Italia dipende da quella di Parigi). Vi ha investito l’aristocrazia siliconvallica, tra cui il consigliere hi-tech del presidente Trump, Peter Thiel, e l’imaginifico Elon Musk, patron di Tesla. Ma anche i colossi “old” del settore, che invece che salire sulle barricate si sono accodati, sono Visa e American Express e hanno investito nella società.
Adesso però basta parlare di soldi, siamo alla gustosa sociologia. I fratellini sono infatti un esempio della nuova generazione di startuppari buoni, startuppari riflessivi che non si riconoscono nella genia dei trenta-quarantenni, i loro zii Zuckerberg, Thiel, Kalanick. Stripe è una classica startup “zebra” secondo la fantasiosa definizione giornalistica che circola. E’ finito il tempo degli unicorni, le startup che fanno il botto, con rendimenti di Borsa almeno pari all’ego dei loro fondatori. Adesso è tempo delle zebre, startup che non distruggono l’esistente ma migliorano la società. Startup buone, insomma, e Stripe in questo è perfetta. Portafogli a sinistra e cuore online, i Collison sono anche autobiografia di San Francisco oggi; casa a Mission, Pigneto siliconvallico, dove abitavano fino a poco fa un bicamere pieno di libri, mobili Ikea, unico status symbol dei vasi di Heath, un DePadova californiano dove i nerd investono buona parte delle loro sostanze. In pochi anni la loro società vale 9 miliardi di dollari, loro hanno un patrimonio di 1,1 a testa. “Sono soldi virtuali, perché la compagnia non è quotata, la gente spesso fa confusione, non sono azioni che posso vendere domani in Borsa” si schermisce Patrick. Solidarietà.
Colpisce comunque il contrasto, niente scorta come il vicino di quartiere Mark Zuckerberg, niente acquisto di palazzine confinanti per evitare invasioni di privacy; i fratelli hanno pure un divano, sempre Ikea, dove ospitano gli occasionali dipendenti che non hanno un posto in cui dormire (sui divani dirigenziali di qui si potrebbe fare una serie, tipo “Su e giù per i divani di San Francisco”, fino a qualche mese fa anche il ceo di Airbnb Brian Chesky continuava ad affittare il suo ai turisti, nonostante i miliardi).
I fratelli Collison oltre che progressisti conducono una vita calvinista, anche qui ostentando una differenza esistenziale con i loro zii più flamboyant o anche con gli startuppari millennial un po’ da vita smeralda, tipo appunto il loro coetaneo di Snapchat che esce con le modelle. Loro sono orgogliosamente nerd, non-trombanti (“la nostra vita notturna è come quella diurna, siamo entrambi single”), lettori forti (si vantano di avere 600 libri, addirittura di carta, non si sa se in totale o cadauno), sono naturalmente antitrumpiani, e molto attivi su twitter contro il presidente, soprattutto sulla politica migratoria, fanno collette per immigrati talentuosi bloccati dai proclami autarchici-aeroportuali.
E poi la cultura aziendale di Stripe è strenuamente “friendly e egualitaria”, hanno detto al Ft, aborrendo culti dell’uomo forte e bullismi. “Silicon Valley è troppo legata al mito dei ceo e dei founder” hanno detto. Il convitato di pietra è naturalmente Travis Kalanick, il ceo e fondatore quarantenne di Uber, ormai “mostro” di Silicon Valley, accusato di aver tirato su un’azienda in cui ci si accanisce contro donne e minoranze e autisti, tra un po’ gli addosseranno pure le stragi di bambini in Siria (anche se poi spesso le accuse non sono vere, come nell’ultimo profilo del New York Times).
Da poco, scappata da Uber, è arrivata la tostissima Susan Fowler, chiamata anche a dirigere il nuovo giornale dell’azienda
Il paragone con Uber non è comunque casuale, perché Stripe si pone invece come startup equa e solidale, intanto “processa” tutti i pagamenti di Lyft, che è la concorrente “di sinistra” di Uber – nella semplificazione molto manichea in uso. Consente infatti le mance agli autisti (tramite proprio la piattaforma di Stripe), dona milioni alle cause umanitarie e a gruppi anti Trump dopo i “ban” anti immigrati, è bravissima ad aver approfittato del crollo reputazionale di Uber, ha una nomea di essere più umana, mai verificata, ma il risultato è l’impennata di fatturati e di clienti politicizzati che hanno cambiato app al suono di “deleteuber”.
Ma soprattutto Stripe ha appena assunto la nemica pubblica numero uno di Uber, quella Susan Fowler ingegnera che a febbraio con un post incriminato ha accusato l’azienda e il suo ceo Kalanick di sessismo (la lettera scarlatta di Silicon Valley). Noi sogniamo di incontrarla, questa che è ormai la protagonista di Silicon Valley, ma è a casa, ci dicono, non si fa vedere perché c’è la mega inchiesta legale di Uber in corso (una specie di commissione d’inchiesta guidata addirittura dall’ex ministro della Giustizia, con dentro Arianna Huffington). La storia comunque è abbastanza nota: Fowler, tostissimo ingegnere, autore di vari manuali di programmazione, a febbraio ha scritto un lungo post sul suo blog raccontando la sua esperienza di soprusi e molestie: il suo superiore a un certo punto le ha fatto capire di essere disponibile (tecnicamente, di essere “in una coppia aperta con la fidanzata”, che “stava trovando compagnia molto facilmente, a differenza sua”, e che “stava cercando sesso”).
Fowler ha avvisato l’ufficio del personale dell’azienda, il quale ha ritenuto di non procedere perché il manager in questione era assai importante, e anzi l’ha messa in guardia da possibili ritorsioni. Così Fowler si è fatta cambiare ufficio, e cambiando ufficio ha parlato con le rare altre femmine che le hanno raccontato storie simili. Il manager in questione è stato poi cacciato, ma nel frattempo, girando vari uffici la manager ha potuto constatare il clima fantozziano-trucido dell’azienda, dove le donne in breve tempo sono scese dal 25 al 6 per cento, e dove venivano sempre più emarginate. A dicembre poi se n’è andata definitivamente.
A febbraio è entrata in Stripe, dove non si occupa solo di software, bensì dirige – altra cosa che rende Stripe peculiare – un giornale, un magazine online lanciato pochi giorni fa dall’azienda che si chiama Increment, parla di software, con una grafica molto curata e fighetta, ha edizioni tematiche e punta a diventare il punto di riferimento per la comunità di “coders” siliconvallici. “Una pubblicazione Stripe”, c’è scritto a piè di pagina, e il fatto che una manager superquotata vada (anche) a dirigere un magazine seppur di settore segnala il crescendo di rilevanza che i media stanno avendo quaggiù.
Nelle ultime ore, il fondatore di Wikipedia Jimmy Wales ha infatti aperto un nuovo giornale (ovviamente online), che punta a smascherare le fake news. Si chiama Wikitribune e punta a verificare le notizie, con un modello di business che esclude la pubblicità e si fonda sulle donazioni dei lettori. Mentre negli ultimi giorni un altro paradosso editoriale è piombato su Silicon Valley: il giornale locale The East Bay si è aggiudicato il Pulitzer per la copertura data all’incendio in cui morirono trenta persone lo scorso inverno, in una comune qui a Oakland. L’effetto surreale è che il Pulitzer è arrivato proprio mentre al giornale stavano praticamente tirando giù le saracinesche, in trattativa per licenziare venti giornalisti.
I ragazzi di Stripe sono molto sensibili alle notizie, nelle riunioni che fanno periodicamente nel loro loft ultimamente è stato avvistato anche il direttore dell’Atlantic, la gloriosa rivista. Segnali, nient’altro, che testimoniano però come in Silicon Valley l’attenzione per i media sia in grande crescita. Potrebbero esserci nei prossimi mesi novità, in un contesto di generale grafomania dei soggetti più liquidi del globo - tutti qui scrivono molto su siti e blog, anche con post lunghissimi, a cui dedicano moltissimo tempo (il post della Fowler è di sedicimila battute, tremila in più di questo articolo). Ogni venture capitalist che si rispetti ha almeno un blog e una newsletter. Non si è mai verificato probabilmente un momento storico in cui i più ricchi del mondo scrivono così tanto. Scrive anche il terzo fratellino Collison (ebbene sì, ce n’è anche un terzo, il più piccolo); si è laureato proprio in questi giorni in giornalismo alla New York University, e lancia appelli, qualcuno che lo assuma. Esperto di medio oriente e sicurezza digitale, dice, se qualcuno fosse interessato si faccia avanti. Speriamo non rimanga a spasso a lungo, anche se il boccon di pane non dovrebbe mancare, in casa Collison. Con la crisi che c’è in giro, comunque, i fratelli potrebbero comunque comprargli il New York Times, per esempio.
Il Foglio sportivo - in corpore sano