Anche le startup della Valley hanno bisogno di filosofia

Michele Masneri

Le idee, queste sconosciute nella terra dei business plan, dove gli eventi finiscono con pizzette e dj set come da noi 

San Francisco. Le tristi startup possono non essere necessariamente malvestite ma invece quasi glamour. E non di soli pitch si vive. Tra gli eventi a cui può capitare di presenziare a San Francisco non ci sono solo i brufolosi meetup degli aspiranti neo-Zuckerberg (eventi con l’estetica di ciabatte e felpe). Per fortuna ci sono quelli di SwissNex, prestigioso incubatore-acceleratore di startup gestito dal governo svizzero ma con presenza governativa a “scendere”, cioè con budget sempre più sponsorizzato da grandi aziende, come la gigantica Nestlé. SwissNex nasce “per connettere i puntini tra la Svizzera e il nord America, in scienza, educazione, arte e innovazione”, questa la ragione sociale, è un format che si ripete in varie parti del mondo. Non solo qui si allevano startup, una specie di talent garden con grandi tavoli e le fotine degli startupper di prammatica. Qui soprattutto (abbastanza un unicum) anche eventi intellettuali-artistici, cogliendo una nicchia di mercati perché, come non ci si stanca di ripetere, Silicon Valley e la sua capitalina riluttante San Francisco non vanno osservate solo dal punto di vista dell’offerta (le compagnie creatrici di pil e di futuro, da Google a Facebook a Twitter a Uber, e i loro derivati), ma anche considerate nella loro domanda infinita di beni e di stili di consumo, dai vini e cibi design abbigliamento. E idee, queste sconosciute nella terra dei business plan.

    

Gli svizzeri puntano molto a conquistare un soft power nella valle, con talk molto fighetti a partire dalla location: un ex magazzino sul porto, tra legni chiari, dj set, giovani ben vestiti. Un 10 Corso Como per innovatori che da 14 anni è stato qui creato da Christian Simm, pensatore visionario elvetico, ha 18 giovani dipendenti tutti fighettissimi plurilingue. All’interno dei vasti locali di modernità asettica e aspirazionale, anche il Nestlé Outpost – il colosso dell’alimentare che ha aperto qui quattro anni fa la sua sede per l’innovazione. L’ultimo evento a cui si è stati, lo scorso weekend, panel sull’immancabile intelligenza artificiale, non però coi soliti tecnici ma – attenzione – filosofi di Stanford e contributor del New Yorker direttamente da Williamsburg (San Francisco da almeno un secolo ha complessi di inferiorità culturale nei confronti della East Coast, la grande Esposizione universale del 1915 doveva servire a superarli ma non è servita); anche una startupper che ha presentato il suo vibratore per signora con algoritmo, mandando sul maxischermo celebri spezzoni del film “Harry ti presento Sally”. Poi, tartine e guacamole sul molo, e però soprattutto fondamentali chiacchiere colte sul tema: Silicon Valley sta inventando il futuro, sta fabbricando tutti i “tools” necessari, entusiasmanti e spaventevoli, dipende dai punti di vista. A ben guardare manca completamente un pensiero dietro, un pensiero filosofico o intellettuale che guidi o inquadri o analizzi o critichi la rivoluzione, perché la tecnologia non può essere anche ideologia (poi, pizzette e dj set per tutti, come a un’inaugurazione nella vecchia Europa).

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