Uber & co., lezioni anglosassoni per un legalitarismo non feticista
Milano. L’irruzione di Uber e di tutti i suoi cugini nel mercato dei servizi sta creando forti tensioni tra i nuovi arrivati e gli operatori tradizionali, concorrenza e diritti acquisiti, innovazione e legalità, e pone una grande sfida alla politica e al regolatore su come trovare una sintesi o una soluzione.
Per adesso la politica ha preferito ignorare il problema, lasciando le cose come stanno, ovvero: tutto legale e tutto illegale. In realtà, a differenza di quanto si sia portati a pensare, quella che va sotto il nome di “sharing economy” non è proprio una rivoluzione tecnologica della portata di altre avvenute nei decenni passati, si tratta di servizi vecchi (sono sempre auto che trasportano passeggeri e camere che ospitano turisti) ma forniti in modo innovativo. E tanto basta a rendere le norme attuali obsolete e inadeguate. Ciò vuol dire che questi nuovi servizi si sono diffusi proprio per dei vuoti o delle ambiguità normative, come d’altronde ogni innovazione che non poteva essere prevista da una legge antecedente. In questo contesto il richiamo feticista al principio di legalità (le leggi esistono e vanno applicate) non ha molto senso. Il punto è come il regolatore risponde all’innovazione e come è capace ad adeguare le proprie norme all’evoluzione dei processi economici. “Ci sono delle profonde differenze tra i paesi anglosassoni e l’Europa continentale – dice al Foglio Mario Maggioni, economista dell’Università Cattolica, studioso di economia dell’innovazione – in un paese come l’Italia prima che ci sia una specifica norma è difficile regolare alcunché, mentre il vantaggio dei paesi di ‘common law’ è la forza del precedente, affermata nei casi dell’innovazione tecnologica spesso anche da singole sentenze a livello locale. C’è un vantaggio dal punto di vista evolutivo che evita anche il rischio di norme sbagliate che continuano a produrre effetti sbagliati”. Anche negli Stati Uniti non sono mancati gli scontri tra tassisti e Uber, tra albergatori e Airbnb, tra le start up e gli amministratori pubblici, ma da quelle parti esiste un ambiente favorevole a esercitare il “diritto all’innovazione” o quantomeno un atteggiamento che non respinge l’innovazione e cerca di integrarla in un sistema di garanzie per i cittadini.
[**Video_box_2**]Ad esempio in molti stati americani e in Gran Bretagna sono già state emanate leggi che consentono lo sviluppo e i test su strada delle “driverless car”, le auto senza conducente progettate da Google che non sono ancora in commercio. “Esiste un problema culturale – dice Maggioni – il governo britannico ha messo in piedi Nesta, una quango, ovvero un’agenzia finanziata dal governo ma indipendente dalla politica, che raccoglie i migliori scienziati sociali che studiano l’innovazione per avere analisi di scenario sul futuro. Ma a parte questo c’è anche una grande differenza istituzionale, negli Stati Uniti su queste materie sono competenti gli stati e anche le città e ciò permette di sperimentare legislazioni diverse. Ognuno nel suo laboratorio sperimenta il suo modello legislativo e successivamente valuta i propri risultati e quelli dei vicini per fare gli aggiustamenti necessari. Ciò è impossibile in un contesto monolitico come il nostro”. Il rischio di un sistema centralizzato, soprattutto in un periodo di rapida evoluzione tecnologica, è che i regolamenti emanati dopo mesi e anni di elaborazione risultino superati appena dopo l’approvazione. “L’Expo, che è un evento limitato nello spazio e nel tempo – dice Maggioni – con il suo picco di domanda aveva dal punto di vista teorico le condizioni ideali per essere l’esperimento di una regolamentazione che tutela e assicura il consumatore senza bloccare i nuovi servizi, magari si sarebbe scoperto che con un’offerta più ampia ci avrebbero guadagnato tutti”.