La geopolitica delle idee
Con il tema che intendo trattare di seguito, cioè l’interazione tra innovazione e crescita, mi sono misurato per decenni in maniera diretta e su base quotidiana.
Ho iniziato infatti la mia carriera affrontando questo argomento al livello di una specifica impresa, in quanto cofondatore e amministratore delegato di Research In Motion, oggi nota come BlackBerry. Quello che ho imparato, facendo crescere quella società dallo stato embrionale fino a che non è diventata un gruppo con vendite mondiali per 20 miliardi di dollari, è che i risultati microeconomici sono effettivamente – in larga parte – frutto dei sistemi macroeconomici.
Ciò non equivale a sostenere che una buona idea non sia preziosa. Ho incontrato infatti innovatori e imprenditori da tutti gli angoli del pianeta, con le loro brillanti idee. Non esistono limiti culturali, religiosi, etnici o geografici rispetto alla possibilità di concepire una buona idea. Tuttavia esiste uno squilibrio globale – sia nel livello dell’educazione sia nell’eguaglianza di opportunità – che sicuramente avrà un impatto sulla commercializzazione di queste idee.
Tutto questo però, di per sé, non offre una spiegazione sufficiente del perché un’idea possa generare risultati economici radicalmente differenti se incubata in un paese piuttosto che in un altro. Voglio essere ancora più chiaro: oggi il luogo in cui un’idea viene concepita è un fattore determinante per capire se questa idea avrà poi l’opportunità di dare vita a una società competitiva a livello mondiale, di dare lavoro a centinaia o migliaia di dipendenti ben pagati e di garantire un significativo gettito fiscale per i governi di quegli stati in cui è nata.
La geopolitica, nel mondo contemporaneo, gioca infatti un ruolo cruciale nel processo di commercializzazione delle idee. Non soltanto perché il giro d’affari è enorme, ma anche perché il possesso delle idee stesse e i profitti che ne discendono sono manipolati al livello statale. Quando una società privata di un paese liberale-occidentale produce un certo bene che ha un valore di mercato noto – sia questo bene nel settore delle risorse naturali, sia in quello agricolo o in quello della manifattura classica – il rispetto del diritto di proprietà sullo stesso bene è solitamente garantito dalle corti giudiziarie domestiche. Ergo, non ci sarà interesse internazionale che possa arbitrariamente reclamare la proprietà di beni tangibili all’interno di una democrazia occidentale stabile. Ma il valore di un’idea non è tangibile. Così di fatto l’attribuzione della sua legittima proprietà è quasi sempre stabilita negli Stati Uniti perché è quello il paese che costituisce nella nostra epoca il principale mercato di beni tecnologici. Le conseguenze delle decisioni delle corti statunitensi devono di solito essere efficaci a livello globale per tutte le parti coinvolte. Risultato: il sistema giudiziario americano è diventato in effetti il sistema giurisdizionale di ultima istanza, in tutto il mondo, per quanto riguarda la proprietà intellettuale.
La mia esperienza personale, nel processo di costruzione e gestione di uno dei portafogli di brevetti di maggior valore al mondo, mi ha aperto gli occhi. Al culmine di quella mia attività avevo a che fare con 400 cause legali sui diritti di proprietà, e questo dopo aver appianato la più significativa controversia in una corte americana che avesse mai riguardato un cosiddetto “troll di brevetti” (una società specializzata nelle rivendicazioni brevettuali più che nell’innovazione vera e propria, ndr). La nostra società in quel momento impiegava 150 esperti giuridici di diritto di proprietà intellettuale, perlopiù basati a Dallas in Texas. Nel solo 2011, ho approvato personalmente pagamenti per un ammontare di oltre 6 miliardi di dollari americani per le royalty sui brevetti.
Se non siete ancora convinti del nazionalismo economico che si cela dietro le cause aziendali in materia di diritto di proprietà intellettuale, consentitemi di fornire un altro esempio: la battaglia legale di alto profilo tra Apple e Samsung. Le due società sono ancora in questo momento in guerra fra loro a proposito del pagamento di alcune royalty annuali su dei brevetti che ammontano a miliardi di dollari annui di puro profitto per l’eventuale vincitore. Apple recentemente si è conquistata un qualche vantaggio grazie ad alcune decisioni di certe corti distrettuali della California settentrionale, dove guarda caso si trova il suo quartier generale.
Nel giugno 2013, a dire il vero, Samsung aveva incassato una vittoria significativa su Apple nell’ambito di una decisione indipendente della U.S. International Trade Commission, un’istituzione “indipendente” appunto, che metteva al bando l’importazione di prodotti Apple negli Stati Uniti a causa della violazione di alcuni brevetti della Samsung. Tuttavia nell’agosto 2013, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha posto il veto sulla decisione della U.S. International Trade Commission. E’ stata la prima volta in 26 anni che questo veto è stato impiegato. Più avanti, sempre nel 2013, il presidente Obama si è invece rifiutato di esercitare un veto sulla decisione che metteva al bando alcuni prodotti Samsung, assicurando così che la Apple mantenesse il suo profittevole vantaggio sulla società concorrente di nazionalità coreana.
Le risorse finanziarie globali coinvolte sono enormi, quindi stati sovrani e corporation private lavorano assieme per vincere. Tim Cook (amministratore delegato di Apple dal 2011, ndr) è stato invitato a sedere accanto a Michelle Obama nel discorso dell’Unione del presidente Obama, appena prima che venisse presa questa decisione dalla Casa Bianca sul caso Samsung. E questo non è accaduto perché i Democratici stanno corteggiando il big business. E’ successo perché, negli Stati Uniti, la proprietà intellettuale è un big business, un grande affare.
Potrà apparire ironico, ma mentre gli opinionisti regolarmente lasciano intendere che il sistema politico americano sia “broken”, cioè guasto, io invece ritengo che quando si tratta di massimizzare la ricchezza che viene generata dalle idee allora questo sistema funziona come una meccanismo perfettamente oliato.
I diritti di proprietà intellettuale sono responsabili di circa la metà delle esportazioni americane; contribuiscono per 3,5 trilioni di dollari all’economia del paese e danno lavoro direttamente a quasi 18 milioni di americani, tra l’altro in posizioni ben retribuite. Questa, per intenderci, è la prosperità che dipende dalla commercializzazione delle idee.
Il Copyright Term Extension Act approvato nel 1998, e derisoriamente chiamato “Mickey Mouse Protection Act”, ha esteso i termini di protezione per le opere registrate da 75 fino a 95 anni dopo la morte dell’autore; quanto prodotto dal 1923 in poi, e protetto ancora da copyright nel 1998, diventerà inoltre di pubblico dominio al più presto a partire dal 2019. Questo, e poi l’America Invents Act (del 2011, ndr), sono soltanto due esempi di una strategia legislativa che crea regole le quali si evolvono rapidamente e che sono concepite per far avanzare esclusivamente gli interessi economici americani.
Gli sforzi americani di dominare nella battaglia sulla commercializzazione delle idee si sono fatti strada anche nell’operato dei diplomatici di quel paese. Varie Amministrazioni che si sono succedute nel tempo si sono concentrate su questo elementro trainante di ulteriore prosperità. Essendo importanti produttori e distributori di contenuti creativi, gli Stati Uniti hanno molto da guadagnare dal fatto di battersi per nuove regole che rendano illegale la possibilità di godere dei loro prodotti creativi senza avere nuove licenze. Quando l’America vuole proteggere il suo prezioso vantaggio competitivo in questo campo, certo non aspetta che l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) faccia avanzare in sede multilaterale gli Accordi sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale (Trips).
Gli indizi da Wikileaks
Aggiungo che una delle storie meno raccontate di tutto il dossier “Wikileaks” è il livello di pressione che i diplomatici americani esercitano sui governi in giro per il mondo per emanare forme di legislazione sul copyright che sia in linea con il Mickey Mouse Protection Act. Washington agisce attraverso i canali bilaterali su dossier che portano acqua al mulino degli Stati Uniti in materia, e lo fanno utilizzando tutte le leve a disposizione del settore pubblico. Il sistema distrettuale delle corti giudiziarie, il Dipartimento di giustizia, la U.S. International Trade Commission e ogni altra agenzia che possa offrire il suo contributo. E gli Stati Uniti non sono i soli a condurre in maniera vittoriosa la battaglia sulla commercializzazione delle idee.
L’Europa è almeno egualmente sofisticata nella sua strategia per ottenere maggiore prosperità dai diritti di proprietà intellettuale. L’ho visto in prima persona a Bruxelles in quanto membro dell’Advisory Committee dell’Unione digitale europea e lavorando con la Commissione per la Concorrenza su due casi separati di diritti di proprietà intellettuale, così come mentre facevo lobbying per arrivare a delle regole che gestissero la nuova “Corte dei brevetti unificata” a livello pan-europeo.
La strategia europea in materia è anch’essa concentrata su accordi bilaterali per spingere i propri partner commerciali ad allineare le loro leggi a quelle dell’Europa in aree cruciali come quella dei brevetti farmaceutici ad alto valore aggiunto. L’Europa, come gli Stati Uniti, ha poi una panoplia di istituzioni, come la Corte regionale di Mannheim, la Commissione per la politica di concorrenza e l’Ufficio brevetti europeo che sono concentrati sullo stesso obiettivo: la commercializzazione delle idee indigene.
[**Video_box_2**]Non condanno certo europei e americani per il loro atteggiamento scaltro a questo proposito. Preservare la loro prosperità e i loro standard di vita elevati dipende dal fatto di poter generare ricchezza partendo dalle idee. I paesi avanzati utilizzano tutto quello che è in loro potere, incluse le massime burocrazie, per vincere questa sfida. La posta in gioco, d’altronde, non potrebbe essere più alta.
Non a caso la lista delle prime 100 società del mondo per capitalizzazione di mercato, stilata da Pwc e Bloomberg, dimostra due tendenze. La prima è che Stati Uniti ed Europa ospitano le società di maggior valore. La seconda è che le società tecnologiche sono quelle che crescono più rapidamente oramai dal 2009. Coincidenza: le prime dieci società tecnologiche su questa lista hanno tutte un passaporto americano o europeo.
Il punto è che gli elevati margini di profitto generati dalla commercializzazione delle idee sono fondamentali per la ricchezza di un paese; di conseguenza quegli stati che devono la loro prosperità al processo d’innovazione fanno affidamento su un impegno comune e strategico di imprenditori e policy-maker.
Ora immagino che i miei amici americani ed europei stiano tirando un sospiro di sollievo. Però devo aggiungere una cosa: a fronte di questo attivismo di Stati Uniti ed Europa, che ne sarà di tutto il resto di noi? Inizio dicendo che conservo una discreta fiducia a proposito del livello “micro”. Come ho detto prima, la curiosità e la spinta possedute dagli innovatori e dagli imprenditori che incontro in tutto il mondo ispirano fiducia.
Sono certo che i migliori tra di noi, in tutto il pianeta, avranno successo quale che sia il loro paese di nascita. Tuttavia, in questo mondo globalizzato, nella situazione attuale che ho descritto di un’economia dell’innovazione, questi imprenditori saranno spinti a trasferirsi nella Silicon Valley, in Germania o in Francia, insomma lì dove hanno le chance migliori per far compiere il salto di qualità alle loro idee e trasformarmi in realtà imprenditoriali competitive ovunque.
Questo scenario costituirà una sfida economica seria anche per le economie emergenti nel settore dell’innovazione. Avrà pure ripercussioni sociali, considerato che assistiamo già ora alla migrazione di alcuni degli imprenditori più promettenti da paesi che faticano ancora a generare ricchezza da un’economia delle idee. I leader politici di questi paesi devono prendere ogni possibile contromisura per fornirgli un ecosistema che sia non troppo sfavorevole rispetto a quello americano o europeo, anche facendo leva sul loro orgoglio patriottico. Devono sviluppare regimi legali di proprietà legale e intellettuale che consentano alle loro industrie tecnologiche di crescere prim’ancora che le singole società di valore vengano acquistate o portate in tribunale con l’obiettivo tattico di spolparle e poi portarle lentamente al fallimento.
Questi paesi innovatori emergenti devono anche loro acquisire scaltrezza nei negoziati bilaterali con i paesi di “antica” innovazione. Occorre che si battano per una maggiore chiarezza nelle organizzazioni globali che si occupano di proprietà intellettuale. Se consentiranno allo status quo di perpetuarsi, la distanza tra gli “haves” e gli “have nots”, tra coloro che hanno e coloro che non hanno, sarà destinata solamente a consolidarsi e a crescere nel mondo ipercompetitivo dell’innovazione.
Jim Balsillie, già cofondatore e amministratore delegato di BlackBerry, ha lasciato il gruppo nel 2012 e oggi è fondatore e presidente del think tank canadese Centre for International Governance Innovation (Cigi). Quello che pubblichiamo è il discorso da lui tenuto nel fine settimana, durante una sessione a porte chiuse del seminario “Liberté, égalité, fragilité” organizzato da Inet e Cigi a Parigi.
Testo e traduzione a cura di Marco Valerio Lo Prete
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