A cosa serve andare nello spazio? A migliorare la vita sulla terra
Torino. Le luci sono quasi sempre accese. C’è chi entra direttamente in bicicletta nella piccola corte al centro della città, per fare prima. Nel palazzo di fronte c’è una sala prove e di tanto in tanto si sente arrivare il rullo di una batteria. Superato l’ingresso si aprono 150 metri quadrati di open space: gli ambienti sono divisi da vetri, tutto è trasparente, tutto si confonde e si misura. Il rumore lo fanno i macchinari, e l’operosità di una decina di individui in camice bianco. Sono ingegneri, per lo più millennial. Dei nerd, si direbbe, se la parola anglofona non avesse assunto ormai un’accezione più che altro negativa, da sfigati. Si capisce di non essere finiti in un episodio di “Silicon Valley” perché su almeno tre pareti è appeso il tricolore italiano. E poi il modellino di uno Shuttle, i poster di alcune missioni spaziali, una sala riunioni con una lavagna scritta fitta fitta, quasi del tutto incomprensibile. Siamo nel centro di Torino, nel luogo d’Italia più vicino alla striscia di terra da cui arriva il futuro, la California. Siamo nel centro di Torino ma sembra di essere in un altro posto.
L’esplorazione dello spazio sta vivendo uno dei momenti più rivoluzionari della sua storia. E a dare il via al cambiamento è stata ancora una volta una crisi geopolitica, quella in Crimea, con le sanzioni imposte dall’America alla Russia. Durante la Guerra fredda lo spazio era il luogo dell’esibizione di potenza dei due blocchi. Ogni missione spaziale aveva un preciso significato simbolico oltre che geopolitico. Alla fine degli anni Cinquanta Mosca sembrava primeggiare nella corsa, in effetti i russi furono i primi a mandare lo Sputnik in orbita (4 ottobre 1957). Poi ci fu la cagnetta Laika, il cosmonauta Yuri Gagarin (12 aprile 1961), la cosmonauta Valentina Tereshkova. Ma nel 1958 Washington creò la Nasa, che undici anni dopo portò l’Apollo 11 sulla luna (11 luglio 1969). L’orma di un uomo sul satellite della terra fu lo sprint finale di una corsa che sembrava ormai definitivamente vinta dagli Stati Uniti. Poi arrivarono gli anni Settanta, il programma Space Shuttle, il disastro del Challenger (1986), quello del Columbia (2003). Infine, la decisione di sospendere il programma spaziale americano. Nel frattempo la Guerra fredda era già da un bel po’ finita e i paesi più industrializzati avevano iniziato a cooperare nel mastodontico progetto della Stazione spaziale internazionale, un luogo divenuto simbolo di condivisione e pace tra i popoli. Fino alla crisi in Crimea, alle sanzioni contro la Russia, e alla decisione – sempre più evidente – di far ripartire i programmi spaziali nazionali. Ma mentre si lavora nello spazio, c’è pure chi lavora per lo spazio.
Ad accoglierci all’ingresso del laboratorio di Torino è David Avino, managing director nonché fondatore di questo piccolo gioiello dell’ingegneria aerospaziale made in Italy. L’azienda si chiama Argotec: “La casa degli argonauti”, dice Avino, sorridendo al pensiero della sua squadra come di un manipolo di eroi alla ricerca del vello d’oro. Argotec è una fucina d’idee prima di tutto, ma anche un modello aziendale. Nelle ultime settimane l’azienda di Avino è finita su tutti i giornali per via del primo caffè espresso bevuto sulla Stazione spaziale internazionale. Qualche settimana prima era stata l’eco mediatica del cibo spaziale, un modello di produzione e confezionamento di alimenti che mantiene intatte le qualità nutritive e il gusto, ma ne consente la conservazione per lunghi periodi in piccolissimi spazi. Avino è il responsabile dello space food dell’Esa, l’agenzia spaziale europea. E Argotec ha partecipato alla formazione di Samantha Cristoforetti, l’astronauta italiana attualmente in missione sulla Stazione spaziale internazionale. Eppure la piccola azienda torinese non è solo cibo spaziale, e lo space food non è soltanto un curioso particolare per divulgare la scienza aerospaziale e raccontare la vita nello spazio. Qui nel quartier generale delle idee di Argotec c’è l’area “Ready to lunch”, quella che a una prima occhiata può sembrare una cucina ma che in realtà è un laboratorio scientifico. “Stefano Polato è un cuoco. Ma se tu pensi a uno chef, pensi a un artista, e le opere d’arte per natura non possono essere riprodotte. Il sistema scientifico impone tutt’altro metodo, l’esatto opposto: il cibo, per diventare space food, per esempio, va riprodotto identico. Ed è quello che fa Stefano”. Dietro all’approccio scientifico spiegato da Avino c’è la visione di un’azienda che funziona, e che sa adattarsi alle esigenze del mercato: “Qui non lavorano gèni. Lavorano persone normali, che però sanno produrre in team. Basta lasciare a ognuno di loro il proprio tempo e il proprio spazio (terrestre), e il risultato arriva”. Primo dato: qui l’età media dei dipendenti, che sono una trentina, è di ventinove anni. E uno dei punti di forza di Argotec è proprio l’estrema flessibilità: “Il processo creativo inizia così: Quando qualcuno ha un’idea, chiunque del gruppo, non vede l’ora di esporla in riunione. Se l’idea convince tutti, iniziamo con uno studio di fattibilità. Ogni ragazzo che lavora qui è responsabilizzato, porta avanti un progetto dall’inizio alla fine. La gran parte delle aziende che lavorano nel campo dell’ingegneria assume smanettoni che sanno fare – magari benissimo – solo una parte del lavoro. Ciò che ho voluto per Argotec è che tutti sapessero e contribuissero a ogni progetto”. Avino ha iniziato a lavorare per lo spazio nel 2008, l’anno del primo piccolo contratto con l’Esa. L’anno successivo è riuscito a espandersi e ad assumere quattro persone tra cui Marco Carrano – oggi, a trent’anni, è il responsabile del training di Argotec e quattro anni fa ha eseguito il basic training di tre astronauti italiani. Man mano l’azienda di Avino cresce, grazie ai lavori commissionati dall’Agenzia spaziale europea. Nel 2011 poi il grande salto, “abbiamo iniziato a investire di più sulle nostre idee”. Ora funziona così: il team di Argotec ha un’intuizione, crea un brevetto, lo sperimenta e trova compagnie in grado di finanziare eventuali applicazioni. E’ successo con la macchinetta per l’espresso spaziale, poi sponsorizzata da Lavazza: “L’idea è nata qui dentro”. David mi accompagna a una macchinetta del caffè, di quelle da ufficio: “Hai presente quanta acqua esce inutilmente dalla macchina quando ti prepari una bevanda? E poi c’è la condensa, e la manutenzione da fare per la calcificazione. Sono tutti problemi estremamente terrestri. Attualmente abbiamo tre brevetti su una macchinetta del caffè che può essere utilizzata in assenza di gravità – ovvero senza che l’acqua fuoriesca. Lavazza ha capito che c’era del materiale su cui lavorare, e ha iniziato a collaborare con noi”. Con l’inizio della missione spaziale di Samantha Cristoforetti, “Volare”, l’Asi (Agenzia spaziale italiana) ha indetto un bando per gli esperimenti che avrebbe dovuto eseguire l’astronauta italiana sulla Stazione spaziale. Tra i dieci esperimenti che hanno vinto, c’era anche la macchinetta del caffè di Argotec/Lavazza.
[**Video_box_2**]La Difesa, oppure il miglioramento della vita sulla terra. Sono le due idee di ricerca scientifica spaziale. La Russia, per esempio, ha un’impostazione legata essenzialmente al settore militare. Quasi tutti i dipendenti della Roscosmos, l’agenzia spaziale russa, sono militari, “ed è quella anche la mentalità”, dice Avino. La Nasa, da qualche tempo, ha aperto le porte alle aziende private perché collaborino con la ricerca nello spazio, anche economicamente. Ciò che fa la SpaceX di Elon Musk è lo stesso che – più in piccolo – avviene in Argotec: “Bisogna ridurre il gap che esiste tra ricerca spaziale e applicazioni sulla terra”, dice Avino. “Noi cerchiamo di sognare, ma abbiamo i piedi ben piantati per terra: bisogna fare business, dobbiamo produrre, non siamo un’università”. Mi viene in mente che in effetti il cibo spaziale, adesso, si può comperare online. Ma non è solo marketing: “Per esempio, tre anni fa abbiamo iniziato un progetto nel settore termico”, racconta Avino. A fine anno Argotec eseguirà un esperimento sulla Stazione spaziale internazionale che riguarda il trasferimento di calore passivo. Si tratta di studiare un sistema per ridurre i consumi e migliorare la produzione di energia e il riscaldamento. Tra vent’anni, magari, le caldaie delle nostre case avranno il brevetto di Argotec. Qui si fa la storia dello spazio, ma con i piedi ben piantati sulla terra.