Netflix non sopporta di farsi prendere le misure (sull'audience)

Massimiliano Trovato
Il servizio streaming on demand, il tentativo di Nielsen di quantificare il suo pubblico, le ricadute sui contratti in essere

Roma. A metà degli anni ’90, Blockbuster addebita a Reed Hastings una penale di 40 dollari per aver restituito in ritardo la copia di “Apollo 13” che aveva noleggiato: un episodio trascurabile, se non avesse motivato Hastings a battere un sentiero alternativo: quello del noleggio per corrispondenza. Nessun negozio, dunque; e, di lì a poco, nessuna penale: nasce il modello in abbonamento oggi ubiquo. C’è un modo elementare per raffigurare il miracolo Netflix: per contrasto. Nel 2000, un’altra sliding door: l’azienda viene offerta per 50 milioni di dollari a Blockbuster, che declina. Blockbuster continua a crescere per qualche anno, tocca la vetta nel 2004, poi comincia a sgretolarsi sotto le picconate della pirateria, ma soprattutto dalla rivoluzione del mercato dei contenuti. E, per la terza volta, le strade s’incrociano. Nel 2007, a dieci anni, dieci milioni di clienti, un miliardo di dvd dalla nascita, Netflix cambia pelle e s’inventa il mercato dello streaming video. Oggi Netflix vale 50 miliardi di dollari; Blockbuster è un ricordo sbiadito.

 

Caso pressoché unico tra i colossi dell’economia di internet, Netflix non è un’azienda “nativa digitale”, ma non è neanche, in senso stretto, il frutto di un’ibridazione con l’analogico. Semmai si può parlare di una giustapposizione tra i due mondi: si cambia per restare fedeli a se stessi, e cosa facciamo conta più del come. L’impronta continua a lievitare: 65 milioni di utenti in 50 paesi (e un fitto calendario di ulteriori espansioni già programmate); quasi 5 miliardi di dollari l’anno per investimenti in contenuti, sempre più spesso originali; e il numero più clamoroso: negli Stati Uniti, Netflix genera oggi il 37 per cento del traffico internet complessivo nella fascia oraria di punta (grosso modo, quella che va dalle 19 alle 23). Fin qui le cose che sappiamo di Netflix; e le sappiamo perché Netflix vuole farcele sapere. Ma i contenuti non sono tutti uguali e sulla formula della salsa Netflix il riserbo è massimo. L’informazione è potere, specie in un mercato in cui concorrenti sono robusti e agguerriti e, sotto sotto, anche quelli con cui fai affari – Comcast, TimeWarner, eccetera – vorrebbero un pezzo più grande della tua torta. Per questo, Netflix (e Hulu e Amazon…) custodiscono gelosamente le informazioni di visione – e, del resto, se la pubblicità non è parte dell’equazione, perché dovrebbe esserlo lo share? Sennonché, il successo relativo dei singoli contenuti sarebbe un’informazione particolarmente preziosa per i fornitori di Netflix, che mirano a spuntare condizioni più vantaggiose; e, allo stesso modo, gli investitori ne trarrebbero indicazioni fondamentali per valutare l’impegno di Netflix nelle produzioni originali.

 

[**Video_box_2**]Ecco, allora, che a fare luce sulla questione sta provando l’istituto di rilevazioni Nielsen, che ha iniziato a registrare informazioni di consumo relative a un migliaio di produzioni. Per il momento Netflix minimizza la portata delle rivelazioni, ma è indubbio che si tratti di un contrattempo significativo per un’azienda che sinora si è saputa barcamenare con diplomazia tra fornitori, concorrenti e poteri pubblici – “si trova sempre dalla parte dei regolatori”, ha scritto il New York Times – ma che, con ciascuno di essi, ha molte occasioni di frizione latenti.

 

In ottobre, Netflix sbarcherà in Italia – senza vincoli di esclusiva, nonostante un accordo già annunciato con Telecom. Lo farà senza poter contare su alcuni prodotti di punta, già venduti a Mediaset e Sky, e troverà ad attenderla un mercato dello streaming già in fermento, grazie alle iniziative degli operatori televisivi e di battitori liberi come Chili. Una sfida impegnativa per l’azienda californiana, ma che – banda ultralarga permettendo – potrebbe dare una scossa allo scenario nostrano dell’audiovisivo.

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