Steve Jobs (foto LaPresse)

Basta con le biografie stronze di Steve Jobs

Eugenio Cau
Siamo ansiosi di sapere tutti i particolari sadici sulla vita del cofondatore di Apple, e a ogni nuovo libro, film e documentario siamo accontentati. Ma così siamo caduti nel cliché. Intorno a lui si è creata la mistica del genio, ma forse in maniera ancora più evidente quella del tiranno tecnologico

Le volte che Steve Jobs parcheggiava la sua Mercedes nei parcheggi degli handicappati. Gli infiniti aneddoti sui collaboratori brutalizzati e scaricati. Quelli sugli amici traditi. Steve Jobs che odia la filantropia e sfrutta i lavoratori cinesi di Foxconn. Che cerca di frodare il fisco e forma un cartello per bloccare la concorrenza per i talenti nella Silicon Valley. Che abbandona la madre di suo figlio mai nato e con crudeltà nega per anni il riconoscimento legale a sua figlia. Quando si parla di Steve Jobs, il cofondatore e ceo di Apple morto nel 2011, ci sono solo due opzioni possibili: era il genio che ha plasmato il mondo della tecnologia – e dunque oramai una buona fetta di mondo – così come lo conosciamo; oppure: era uno stronzo senza speranze, un piccolo uomo che ha fatto cose grandi, ma resta un piccolo uomo. E dei due modi di raccontare Steve Jobs in costante competizione l’uno con l’altro, quello dello stronzo sembra spesso avere la meglio, nonostante la venerazione mondiale. Intorno al fondatore di Apple si è creata la mistica del genio, ma forse in maniera ancora più evidente quella del tiranno tecnologico, del mostro che ha perso la sua umanità andando in cerca della perfezione. Intere generazioni di ceo si sono conformati al mito disumano di Jobs, da Jeff Bezos, fondatore di Amazon che quando un dipendente gli rivolge la parola per questioni non essenziali risponde: “Smetti di sprecare la mia vita”, fino a Elon Musk, fondatore di Tesla di cui un libro uscito quest’anno documenta gli aspetti brutali e antisociali.

 

La competizione per l’eredità morale di Steve Jobs è iniziata ancor prima della sua morte, e probabilmente lui ne è stato il più consapevole, avendo incaricato Walter Isaacson di scrivere una biografia autorizzata che illuminasse tutte le ombre. Gli concesse più di 40 interviste, e accesso a gran parte dei suoi collaboratori. Non riuscì mai a leggere il libro, che uscì in tutta fretta poco dopo la sua morte, ma “Steve Jobs”, biografia ufficiale, prima ancora che l’enorme monumento al Jobs-genio divenne la prova della versione stronza del capo di Apple. Il libro ebbe un enorme successo, ma fu sempre considerato dai fedeli di Jobs un tradimento. Il capo del design di Apple Jony Ive ha detto a febbraio al New Yorker che “la sua considerazione (del libro) non potrebbe essere più bassa”, e il nuovo ceo, Tim Cook, ha detto che Isaacson ha fatto a Jobs uno “sgarbo tremendo”: “(il libro) era un miscuglio di roba già scritta, che si concentrava solo su una piccola parte della sua personalità”.

 

E quest’anno, con una nuova biografia non ufficiale ma endorsata da tutta la dirigenza Apple, un documentario, un film stellare (con Michael Fassbender, Kate Winslet e Seth Roger, Danny Boyle alla regia e soprattutto Aaron Sorkin alla sceneggiatura) e l’ennesima infornata di prodotti Apple da poco usciti o in uscita, l’eredità di Steve Jobs è sempre più in discussione – e l’immagine da stronzo sta vincendo ancora.

 

L’Atlantic ha pubblicato nel suo ultimo numero un lungo articolo a firma di Megan Garber su “Steve Jobs: The Man in the Machine”, documentario del premio Oscar Alex Gibney uscito di recente e molto applaudito dalla critica. Il titolo dell’articolo può essere tradotto come: “Il revisionismo su Steve Jobs”, perché l’idea di Gibney è quella di applicare al fondatore di Apple le dinamiche di un documentario-verità su Scientology (Garber cita “Going Clear”, di cui Gibney è il regista): credevate di far parte di un culto d’amore, ma la verità è viscida e dura e vi farà male. Gibney recupera tutti i racconti orribili su Jobs-stronzo, dà loro fondamento con una lunga serie di interviste e con un po’ di materiale inedito, e poi sembra dire, presentando sé stesso come il primo degli increduli: visto che mostro? L’intento del documentario è quello di presentare i problemi di Jobs non solo come “una nota a piè di pagina”, ma come il centro del discorso.

 

 

Eppure Gibney non aggiunge niente di nuovo alla descrizione di Jobs che già conosciamo, e forse sta tutto qui il punto: raccontare il Jobs-stronzo non è fare revisionismo, è conformarsi al mainstream. Conosciamo così tanti aneddoti sulle malefatte di Jobs da poter riempire libri, e certo, apprezziamo i prodotti frutto del suo genio, ma di tutto il resto, dell’umanista e dell’ideologo, abbiamo un’idea vaga. Spesso si dice che il fondatore di Apple era un uomo con una visione, ma quasi nessuno riesce a definirla in termini complessi, che non siano: ha inventato l’iPhone, sfruttava i dipendenti, stay hungry stay foolish. Il suo discorso sull’umanesimo è celebre, ma non come dovrebbe esserlo. E l’amore che ancora ispira nei suoi dipendenti, anche in quelli che lo hanno descritto in termini orribili nel documentario di Gibney, non corrisponde al mostro anti umano che molti vorrebbero raccontare.

 

 

[**Video_box_2**]“Becoming Steve Jobs”, biografia non ufficiale scritta da Rick Tetzeli e Brent Schlender, ma narrata da quest’ultimo, uno dei giornalisti più vicini a Jobs, in prima persona, cerca di restituire al ceo la sua umanità, e sembra riuscirci, vista l’accoglienza che il libro, uscito da pochi mesi, ha avuto a Cupertino. La dirigenza attuale di Apple ha fatto di tutto per promuovere il libro come la vera biografia, concedendo molteplici interviste e promuovendolo sui social network. L’episodio fondamentale è quello in cui Tim Cook, il ceo attuale, si offre di donare a Jobs parte del suo fegato, vista la malattia che stava consumando il fondatore e visto che i due condividevano lo stesso, rarissimo gruppo sanguigno. Jobs interrompe Cook ancor prima che questi riesca a parlare: “Non te lo lascerò mai fare, non te lo lascerò mai fare!”. “Un uomo egoista (come lo ha descritto Isaacson) non risponde in questo modo”, chiosa Cook. “Becoming Steve Jobs” tuttavia non è stato un grande successo di pubblico, e una delle ragioni, probabilmente, è proprio l’assenza dei particolari sadici che ci spingono a sapere sempre di più di Jobs-stronzo.

 

[**Video_box_2**]Così resta “Steve Jobs”, il film della Universal che è stato presentato ieri con grande fanfara al Telluride Film Festival, in Colorado. Chi l’ha visto ha scritto recensioni entusiastiche, ed è facile immaginare la ragione, visto il cast eccezionale e la scrittura di Aaron Sorkin, uno dei più grandi sceneggiatori degli ultimi due decenni. Già si dice che il film è il più forte candidato agli Oscar di quest’anno, ed è facile immaginare che sarà un successo. Ma anche il Jobs di Sorkin è basato sulla biografia di Isaacson, quella odiata da Apple, e le recensioni già dicono, con il solito fare ambivalente, che “Fassbender interpreta un mostro che è anche un genio”. Perché anche se gli stronzi ci hanno già stancato, non ne abbiamo mai abbastanza.

 

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.