"Web", "digital" o "strumento anti-elusione", comunque sia una tassa è una tassa è una tassa
Perché ora? Ciò che più colpisce dell'accelerazione impressa dal presidente del Consiglio sul terreno del trattamento fiscale dei grandi attori del digitale è la discutibile scelta di tempo: da segretario del Partito democratico, adducendo la necessità di un coordinamento internazionale in materia, Renzi aveva auspicato l'eliminazione preventiva della web tax di Francesco Boccia – obiettivo puntualmente conseguito, una volta sbarcato a palazzo Chigi. Da allora, molto è stato fatto: la Commissione europea ha insediato un'apposita commissione di studio, ma è soprattutto l’Ocse ad aver preso a cuore la questione, forte della propria posizione di custode dei trattati fiscali bilaterali e dell’ormai classica avversione alla concorrenza fiscale “dannosa”: dannosa, s’intende, per i governi, non certo per i contribuenti.
Il progetto Beps (“Erosione della base imponibile e trasferimento dei profitti”) procede spedito: le prime raccomandazioni – comprensive dell’Action 1 sulle sfide fiscali dell’economia digitale, che significativamente guidano l’elenco – sono state pubblicate nel settembre 2014; e il rilascio dell’intero pacchetto è atteso per le prossime settimane, in tempo utile per sottoporlo alla discussione dei ministri delle finanze del G20, che si riuniranno in Perù l’8 ottobre. Dopo il prevedibile via libera, inizierà il lavoro per l’implementazione: perché, dunque, scegliere la via autarchica proprio ora che l’agognato quadro condiviso è alle porte?
In verità, la scadenza del 2017 indicata da Renzi suggerisce che l’annuncio sia motivato da pressanti esigenze di marketing politico più che da una solida intenzione di portare al traguardo la misura. Tuttavia, non si può negare che il precedente del Regno Unito, dove George Osborne ha sdoganato l’approccio fai da te, abbia avuto un certo peso. Dal mese di aprile è in vigore a Londra la Diverted Profits Tax, un’imposta del 25 per cento sui profitti realizzati – superate determinate soglie di attività – da imprese prive di una stabile organizzazione nel paese o che, quando ne sono dotate, intrattengano con entità terze relazioni commerciali prive di un’effettiva giustificazione economica e, così facendo, ottengano una riduzione del proprio carico tributario.
[**Video_box_2**]Cosa prevede, invece, la digital tax renziana (messa a punto dagli onorevoli Quintarelli e Sottanelli e condivisa dal sottosegretario Zanetti)? La riformulazione in salsa digitale della nozione di stabile organizzazione – che fonda la potestà impositiva dello stato sulle imprese – come una "presenza continuativa di attività online" per almeno sei mesi e tale da generare pagamenti per almeno 5 milioni di euro. Sugli importi corrisposti a tali stabili organizzazioni virtuali, si applicherebbe una ritenuta del 25 per cento. Le differenze tra i due schemi appaiono evidenti. ll modello Osborne non è confinato all’economia digitale, mira a tassare i profitti e prevede specifici meccanismi per la loro quantificazione in contraddittorio con le imprese interessate, cui pure è rimesso il versamento dell’imposta. La proposta targata Scelta civica introduce regole asimmetriche per uno specifico settore industriale (il commercio elettronico diretto), colpisce i ricavi lordi (contro ogni principio di logica economica e civiltà fiscale) e affida la riscossione agli intermediari finanziari.
C’è un’altra divergenza rimarchevole tra le due misure: mentre il governo inglese non fa mistero di aver introdotto una nuova imposta, i proponenti della digital tax nostrana si affannano a precisare che non si tratterebbe di una tassa, bensì di uno "strumento antielusivo". Affermazione bizzarra, perché l’aggettivo illustra lo scopo perseguito, ma tace sulla natura del mezzo prescelto: una casa sarà pure uno strumento abitativo, ma non per questo cessa d’essere una casa. La digital tax ha aliquota, base imponibile, presupposti propri; e interverrebbe proprio per l’impossibilità (o la difficoltà) di applicare le normali imposte sul reddito d’impresa. In un certo senso, rincuora che, nel paese delle tasse "bellissime", l’introduzione di nuovi tributi sia (nuovamente?) considerata un motivo d’imbarazzo. Ma una casa è una casa è una casa; e una tassa è una tassa è una tassa.