L'app Bitwalking regala monete virtuali ogni sette chilometri di cammino, ed è per metà italiana

Maurizio Stefanini

    E’made in Italy una delle ultime start up di cui le pagine di tecnologia dei giornali di tutto il mondo stanno parlando. E’ milanese infatti il trentacinquenne Francesco Imbesi, il laureato in Economia che è uno dei due inventori di Bitwalking, l’“app che ti paga per camminare”. L’altro, il trentasettenne Nissan Bahar, è di nome e nascita israeliano, ma sua madre è italiana, e lui in Italia è venuto a studiare Medicina a Pavia, e in Italia si è messo a creare start up con Imbesi, dopo aver fatto amicizia con lui a un concerto. Già l’anno scorso, dopo aver lavorato per un po’ a chiavi crittografate per il settore bancario, i due avevano lanciato Keepod: “Il pc su chiavetta da cinque euro”, oggi in uso in 87 paesi del mondo. Avete presente la rapidità con cui i pc invecchiano per via dell’ondata di componenti di nuova generazione che arrivano ormai con cadenza continua? L’uovo di Colombo è Android: un sistema operativo che richiede molte meno risorse di un personal computer. Dunque, basta avvitare a quest’ultimo una chiavetta con Android da almeno 8 giga per “parassitarne” l’hardware e funzionare. E così, anche un pc di 7 o 8 anni fa torna utilizzabile in una ventina di secondi: particolarmente interessante per paesi più poveri, che possono così stare al passo con l’evoluzione digitale riciclando anche computer di terza o quarta mano. Per ogni chiavetta acquistata è stato imposto di “donarne” un’altra al Terzo mondo, per una spesa complessiva da 10 euro. In cambio, si otterranno aggiornamenti sul progetto cui il “regalo” è stato destinato.   

     

    Un altro uovo di Colombo è Bitwalking. Da una parte, c’è la moda di fitness, jogging, footing, maratone: pure l’ultimo viaggio di Renzi in America Latina, alla fine, ha “bucato” sui giornali soprattutto per le foto della corsetta mattutina lungo il Malecón dell’Avana. Dall’altra, c’è Bitcoin: la “criptovaluta” elettronica creata nel 2009 da un anonimo conosciuto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto sviluppando un’idea già presentata su internet l’anno prima, e di cui oggi – secondo un recente studio della Banca d’Italia – sono in circolazione 12,5 milioni di unità, per un controvalore pari a circa 6 miliardi. Si mettono assieme le due cose, e viene fuori un sistema che prima conta i passi, e poi li trasforma in moneta virtuale. Ogni 10 mila passi percorsi, cioè 7 chilometri, viene accreditato 1 Bitwalking dollar (BW$). A scelta, da spendere in un negozio online o trasformare in contanti.

     

    Quattro sono i paesi in cui il progetto è partito: due “ricchi”, Regno Unito e Giappone; e due “poveri”, Malawi e Kenya. Poveri ma in particolare il Kenya particolarmente sensibili sul fronte dell’Itc. Sono stati soprattutto investitori giapponesi a fornire i 10 milioni di dollari di investimenti necessari, e la giapponese Murata ha lavorato a un polsino per misurare i passi anche in assenza di un cellulare. L’idea di partenza era quella di fornire a cittadini del Terzo mondo una fonte di reddito aggiuntivo, ma il sistema può trovare sponsor anche in società che intendono mantenere i dipendenti in salute, fabbricanti di scarpe e prodotti sportivi, assicurazioni, gruppi ambientalisti. Inoltre rappresenta un modo più rapido per raccogliere fondi per beneficienza attraverso eventi sportivi o concerti. In teoria, potrebbe anche diventare un anti-Amazon: venite a prendervi la merce facendo una passeggiata e vi facciamo uno sconticino. Gli stessi grandi operatori telefonici potrebbero includere il Bitwalking nelle loro offerte, come strumento per ricaricare il credito. 

     

     

    Non solo Silicon Valley

     

    Avrà lo stesso successo di altre “trovate” come Google, Facebook o Wikipedia? A volte, è questione di fortuna e contesto. Già sul Foglio si è parlato di Pi Campus: il tentativo della Silicon Valley romana che si sta sperimentando all’Eur. I due fondatori, Gianluca Granero e Marco Trombetti, iniziarono la loro avventura nell’Itc nel 1999 con una start-up che si chiamava Web Chat World, e che in pratica era Facebook cinque anni prima di Faceebok. Fecero parecchi soldi, ma non divennero Zuckerberg. Poi, dopo aver lavorato per un po’ ognuno per conto proprio, nel 2007 si rimisero assieme per creare Memopal: un’altra start up che era Dropbox sei mesi prima di Dropbox. Di nuovo, fu un successo, ma non delle proporzioni del file hosting service di San Francisco. Non stare a Silicon Valley, insomma, comporta un certo prezzo da pagare. Per questo adesso provano a far decollare una Silicon Valley italiana.