Il dibattito parte da prospettive sbagliate

Stefano Quintarelli
Davvero possiamo accettare di perdere la nostra privacy in cambio di maggiore sicurezza? Il caso Apple, il terrorismo, il nuovo Patriot Act e poi il caos grillino. Girotondo di opinioni

Definire la polemica intorno a sicurezza e privacy come frutto di una contraddizione è fuori fuoco. Il punto è chiedersi: cos’è la sicurezza?  Rispetto anche solo a pochi anni fa, con tutte le tracce digitali che lasciamo, sono a disposizione informazioni sulle persone come mai prima nella storia dell’umanità. Il livello di informazione è altissimo, ma questo non corrisponde a una percezione di un maggiore livello di sicurezza. In questo senso, bisogna riconoscere che il dibattito non è tra privacy e sicurezza, ma tra privacy e raccolta di dati. Il problema è che estrarre informazioni dai dati, utili per ottenere maggiore sicurezza, non è un processo automatico, anzi. Bisogna cercare il classico ago in pagliai sempre più grandi. Si pensi agli attentati del 13 novembre a Parigi: i servizi segreti di molti paesi europei avevano una buona quantità di informazioni sui terroristi, ma non sono riusciti a metterle insieme e a ricavare intelligence adeguata. Non possiamo dire che più informazioni equivalgano a più sicurezza, non c’è una raccolta di dati che possa sopperire a una buona capacità d’intelligence. E tutto questo mentre viviamo in un’epoca d’oro della sorveglianza, in cui mai come oggi i dati delle persone sono a disposizione del pubblico e dei governi. Il caso di San Bernardino è una questione ancora diversa. I ruoli vanno ribaltati: Apple combatte per la sicurezza, non per la privacy. Creare una porta di servizio dei dispositivi (una backdoor) è pericoloso perché non esistono chiavi che funzionano solo per i buoni.

 

Si prenda il caso di Juniper Networks, società americana che costruisce apparati di gestione di rete per privati e istituzioni, tra cui istituzioni americane. A dicembre dell’anno scorso Juniper ha scoperto due backdoor nel software dei suoi apparati; alcuni esperti hanno suggerito, senza mai confermare definitivamente, che proprio l’americana Nsa potrebbe essere responsabile indiretta di queste backdoor. E persino il dipartimento della Difesa è stato coinvolto in furti di dati di 21,5 milioni di lavoratori federali e contenenti impronte digitali di 5,6 milioni di persone. Alcuni ritengono che nel suo tentativo di ottenere più informazioni, l’Nsa potrebbe aver involontariamente danneggiato la sicurezza. La discussione attuale nella politica e sui media, dunque, è piuttosto superficiale dal punto di vista tecnico. Il dibattito è molto emotivo, ed è difficile mettere a fuoco il fatto che un aumento della quantità dei dati a disposizione dei servizi non significa necessariamente maggiore sicurezza. Si conti inoltre che è stata l’Fbi a determinare le condizioni per non avere in automatico tutte le informazioni del terrorista di San Bernardino, facendo cambiare ad Apple la password della cloud dell’utente nei primi giorni dopo l’attentato. E’ un errore banale, che non ci si aspetterebbe da persone con adeguata formazione e con processi controllati. La sola Apple ha venduto 900 milioni di iPhone. E se un simile errore banale accadesse con le chiavi della loro porta di servizio?

 

Stefano Quintarelli è deputato del Gruppo misto, e imprenditore nel settore delle telecomunicazioni
(testo raccolto dalla redazione)

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