Più difficile difendersi dagli attacchi
La contraddizione tra sicurezza e privacy è al centro di un dibattito pubblico che si sta sviluppando soprattutto negli Stati Uniti, grazie alla presenza di importanti attori nel campo tecnologico (come Microsoft, Apple, Facebook, Twitter etc.), attori istituzionali come Cia, Fbi e Nsa, nonché e una certa maturità di parte dell’opinione pubblica in materia di sicurezza cibernetica, privacy e crittografia. I rischi sono evidenti, e per enumerarli bisogna partire da un discorso di fondo. Le organizzazioni terroristiche hanno cominciato già da tempo a usare strumenti tecnologici per le loro attività: comando e controllo, reclutamento, finanziamento. Lo Stato islamico e la sua attività online ne sono un esempio lampante. E’ chiaro che sono in atto alcune evoluzioni tecnologiche che stanno rendendo sempre più complesso il lavoro delle agenzie di law enforcement. Infatti, l’impiego di determinati strumenti tecnologici in grado di rendere sicure le nostre comunicazioni rischia di rendere inaccessibili informazioni vitali per le attività di prevenzione o indagine. Il dilemma fra privacy e sicurezza, se non affrontato attraverso politiche adeguate in grado di tenere in considerazione anche gli aspetti tecnologici, rischia di indebolire tanto le nostre capacità di difenderci da attacchi cibernetici, quanto di rendere i nostri dati non protetti. Su queste questioni il dibattito in Italia è quasi nullo, eccezion fatta per l’interesse di pochissimi tecnici o di una cerchia ristretta di esperti. La questione non riguarda solo il terrorismo internazionale o nazionale. Il cosiddetto cyberwarfare, cioè la capacità di attaccare gli stati usando strumenti informatici o di difendersi dagli stessi, rischia di essere influenzato dai risultati del dibattito sulla privacy.
Tommaso De Zan è ricercatore presso il programma Sicurezza e Difesa dello Iai
(testo raccolto dalla redazione)