Il j'accuse di Spotify contro la Svezia
Il gigante dello streaming musicale decide di assumere migliaia di persone lontano dal paese in cui è nato. Sotto accusa, dicono i fondatori, le tasse troppo alte, l'educazione non specializzata e i troppi fardelli burocratici.
La Svezia è terra di immigrazione, welfare e start up. La spesso poco vivace scena tecnologica europea vede nel paese nordico un punto di forza. A Stoccolma è nata Skype, che tutti usiamo per la comunicazione, King, il gigante dei giochi mobile, e soprattutto Spotify, la società di streaming musicale leader nel mondo. Questa settimana, si legge nell’ultimo Global Music Report dell’Ifpi, l’associazione mondiale dei discografici, il giro d’affari della musica in streaming ha superato per la prima volta quello delle vendite dei cd e dei dischi in vinile, confermando una crescita che ormai è continua da anni. E se lo streaming sta ormai soppiantando tutte le altre forme di fruizione musicale, lo si deve in gran parte alla svedese Spotify, fondata da Daniel Ek e Martin Lorentzon circa un decennio fa.
Il numero di abbonati a Spotify è in continuo aumento, e l’azienda prevede di assumere migliaia di persone nei prossimi anni. Solo, non è sicura di volerlo fare in Svezia. Il fatto, dicono i due fondatori, è che il modello svedese non è adatto alla crescita dinamica di una start up come Spotify, e che lacci e lacciuoli stano impedendo lo sviluppo della società. Ek e Lorentzon ieri hanno pubblicato una lettera aperta in cui denunciano come il business environment in Svezia stia danneggiando la crescita di Spotify, e in cui invitano i politici svedesi a trovare rimedio.
Come molte multinazionali tecnologiche, Spotify ha spostato la sua sede fiscale nell’accogliente Lussemburgo, dove gode di una tassazione molto limitata. Già questo dovrebbe essere un primo smacco per Stoccolma: pace se Google e Apple, dovendo aprire la loro sede europea ex novo, cercano luoghi fiscalmente convenienti, ma che Spotify sposti la sede dice molto dello stato di alta tassazione in Svezia. La sede operativa dell’azienda è ancora tutta a Stoccolma. Ma nella loro lettera aperta i fondatori hanno minacciato di andarsene se il sistema Svezia, famoso per il suo welfare ma non certo per la sua flessibilità, non riuscirà a riformarsi.
Daniel Ek e Martin Lorentzon, fondatori di Spotify
Secondo Spotify i problemi riguardano il mercato immobiliare, gestito in modi bizantini e protezionistici che rendono più facile acquistare una casa piuttosto che affittarla. Spotify impiega persone da 48 paesi diversi, ma i nuovi impiegati stranieri sono scoraggiati perché è quasi impossibile trovare casa a Stoccolma. Un’altra ragione è l’educazione. I bambini svedesi non sono educati nelle materie informatiche e il paese è povero di talenti. Un’azienda che non ha un bacino di possibili nuovi impiegati a cui attingere localmente è un’azienda che parte svantaggiata.
Soprattutto, però, è il sistema di tassazione a rendere difficile lo sviluppo di Spotify. I due fondatori si concentrano su un punto: la difficoltà, proprio a causa delle tasse, a pagare i dipendenti con delle stock options, pratica diffusissima, e spesso molto remunerativa per i dipendenti, nella Silicon Valley, ma oltremodo onerosa nel sistema di tassazione svedese.
La lettera aperta dei fondatori di Spotify, così, diventa un j’accuse piuttosto ampio al sistema-Svezia, in cui si riconosce buona parte dell’Europa. Tasse alte, un’educazione non specializzata, fardelli burocratici (come quelli nel mercato editoriale svedese) rendono la scena tecnologica europea spesso sterile e poco dinamica. E se l’appello alle riforme parte dalla Svezia, che pure è uno dei paesi di maggior successo in quanto a capacità di far crescere le sue start up, il resto dell’Europa dovrebbe preoccuparsi.