Google&co. negano di fare informazione. Ma l'algoritmo ormai è un editore
Roma. In gergo le chiamano Ott, cioè Over the top: sono quelle imprese che – attraverso la rete internet – forniscono servizi e contenuti, soprattutto generati da terzi, e vendono spazi pubblicitari. Imprese che si muovono, appunto, “al di sopra delle reti”. Stiamo parlando di Google, Facebook, YouTube, eccetera. Antonio Pilati, ex componente dell’Agcom, una volta ha sintetizzato così, su queste colonne, gli atout delle società Ott: “Danno accesso a un’enorme quantità di contenuti cognitivi; rendono consumabili le conoscenze in modo rapido e facile (in forma gratuita o con costi addossati alla pubblicità); accumulano dati preziosi su gusti individuali e comportamenti di consumo”. Sono caratteristiche tali da prefigurare, già oggi e ancora per gli anni a venire, un confronto obbligato – non sempre amichevole – con le imprese nate nei tradizionali mercati dei contenuti, siano esse editrici di immagine, suono o parola. Mathias Döpfner, ceo del gruppo editoriale Axel Springer, esattamente due anni fa disse che il potere di Google nel discriminare i possibili risultati di una ricerca su internet gli ricordavano “un modello di business che in ambienti poco onorevoli si chiama estorsione”.
E lo disse dopo aver stretto un accordo di collaborazione con la società di Mountain View. In Italia Carlo De Benedetti, patron del gruppo l’Espresso (che oggi controlla Repubblica ed Espresso, ma presto anche la Stampa e il Secolo XIX), contestando i criteri “distributivi” di Google News, disse, sempre un paio d’anni fa: “Abbiamo tutti paura di Google. Anche io. La più grande società editoriale al mondo non sarà mai in grado di fare concorrenza a Google”. D’altronde, come ha scritto ieri Jeffrey Herbst in un saggio pubblicato sul Wall Street Journal, “per le società tecnologiche, le notizie sono semplicemente un contenuto in più che possono usare per allettare gli utenti e spingerli a stare più a lungo sulle proprie piattaforme, esponendoli maggiormente alla pubblicità”. Herbst, presidente di Newseum, museo interattivo dell’informazione con sede a Washington D.C., avverte però che adesso il cambiamento è ancora più “profondo”: “Facebook per esempio ha implementato alcuni algoritmi che determineranno chi vede uno specifico articolo del Washington Post e chi invece un altro articolo dello stesso giornale.
Facebook (foto LaPresse)
Due persone con interessi pure molto simili potrebbero vedere articoli diversi sulla base di quello che i server di Facebook ritengono essere più adatto a ciascuno di loro. Questo è un mutamento enorme rispetto a quando un direttore di giornale determinava ciò che il lettore avrebbe dovuto vedere in base all’impaginazione, che fosse sul quotidiano di carta o sul sito web della testata”. Le Ott insistono sul fatto di non essere “news providers”, fornitori di notizie, ma semplicemente “distribution networks”, reti di distribuzione. “Questa posizione – osserva Herbst – riflette il ruolo storico di queste società della rete, simili a ‘condotte’ che assicurano informazione attraverso ricerche o raccomandazioni. Ciò è conveniente anche dal punto di vista commerciale, visto che potrebbe aiutarle a evitare questioni spinose, come la diffamazione. Tuttavia, mentre la tecnologia progredisce, la posizione di queste società tecnologiche – secondo cui esse sarebbero una cosa diversa dalle ‘news organizations’ – diventa sempre più indifendibile. Già per il semplice fatto di presentare gli articoli con modalità diversificate, le società in questione influenzano profondamente il modo in cui fruiamo delle notizie”.
In più, le stesse Ott stanno introducendo sempre più spesso il loro punto di vista nel flusso informativo: “Apple News e Twitter Moments – scrive l’esperto – impiegano del capitale umano per evidenziare le storie importanti, quindi un elemento di selezione editoriale è implicito nel loro lavoro. Tutte queste società poi provano a censurare alcuni tipi di pornografia o di hate speech, esercitando in questo modo un’altra forma di controllo editoriale”. Un’ingerenza destinata a crescere col tempo: si pensi solo all’annuncio di Facebook che intende proibire le vendite private di armi da fuoco sulla propria piattaforma; può essere giudicata una buona idea, ma chi ha deciso che fosse la più urgente da realizzare? “Si potrebbe sostenere che le Ott non sono società editoriali perché non hanno giornalisti alle loro dipendenze. Ma i modelli del XX secolo non sono più validi per le Ott.
Quello che le compagnie dei social media hanno a disposizione è un tesoro di informazioni raccolte da chiunque abbia uno smartphone e una connessione internet, oltre che un tesoro di informazioni sulle scelte che questi individui compiono”. Conclusione di Herbst: la concorrenza e la collaborazione tra gli algoritmi e gli editori diventeranno ancora più imprevedibili nel momento in cui “l’algoritmo diventa un editore”.