Concerto a Zagabria (messicanbeer via Flickr)

Il mondo della musica, più che accusare i pirati e YouTube, guardi se stesso

Eugenio Cau
Nessun mercato è tanto refrattario all’innovazione.

Roma. Nella lotta infinita tra le case discografiche e la musica digitale, l’ultimo campo di battaglia è YouTube. La “guerra epica”, così l’ha definita il Wall Street Journal, va avanti da qualche mese, e ha come obiettivo il rinnovo dei contratti in scadenza tra il gigante dei video in streaming – parte di Alphabet, la compagnia madre di Google – e alcune delle principali major musicali. I giganti discografici hanno organizzato una grande campagna pubblicitaria e di lobby con tre obiettivi principali: ottenere da YouTube una quota maggiore delle royalty per i video musicali, costringere la piattaforma di video ad adottare misure di coercizione più dure contro i pirati, che secondo la major sono insufficienti, e cambiare la legislazione sul copyright che protegge YouTube.

 

L’attività di lobby è stata potente soprattutto in America, dove le major hanno mosso i loro principali artisti, da Taylor Swift agli U2, per far pressione affinché il Congresso metta mano al Digital Millennium Copyright Act, legge approvata alla fine degli anni Novanta che protegge YouTube e gli altri fornitori di servizi digitali dall’essere perseguibili se utenti terzi caricano video pirata, e che è stata una pietra miliare nello sviluppo della new economy. Ma questa settimana la battaglia si è spostata anche all’Unione europea, dove più di mille artisti, tra cui gli inglesi Coldplay, gli Abba, Lady Gaga hanno firmato una lettera al presidente della Commissione Jean-Claude Juncker denunciando il trattamento non equo di YouTube. L’Ue ha approvato nel 2001 una legge sul copyright simile a quella americana.

 

YouTube si difende dicendo che più 3 miliardi di dollari sono stati pagati agli artisti finora, e ribatte alle accuse di essere troppo tenero con i pirati ricordando i successi di Content ID, il sistema che riconosce in maniera automatica un video piratato con una precisione, secondo YouTube, del 99,7 per cento, e che consente automaticamente alle major di bloccare o ammutolire la musica piratata, o di far pagare per il suo utilizzo. Secondo le case discografiche, l’efficacia di Content ID è molto più bassa di quanto affermato.

 

Le guerre delle case discografiche contro il mondo digitale sembrano non finire mai. Fin dagli anni Novanta, dai tempi di Napster, le major hanno perseguitato, e non senza ragioni, tutte le innovazioni che minacciavano uno status quo a loro favorevole. E’ comprensibile: come molti altri settori, non da ultimo quello dell’editoria, il mercato musicale è stato sconquassato dall’avvento di internet e della pirateria digitale. Ma per le major discografiche la battaglia contro l’illegalità è diventata una lotta per la sopravvivenza che non ha fatto prigionieri né distinzioni: dai siti per scaricare illegalmente la musica alle più innocue radio online ai servizi di streaming gratis o a pagamento fino alle piattaforme video, nella loro foga di soffocare tutte le possibili minacce le major hanno dimenticato di cercare soluzioni strutturali ai loro problemi. Il risultato è che nessun altro mercato tecnologico è tanto refrattario all’innovazione quanto quello musicale.

 

L’investitore David Pakman, in un articolo pubblicato il mese scorso su Medium, notava per esempio, usando dati estratti da Pitchbook, che dal 1997 negli Stati Uniti sono state fondate solo 175 startup digitali legate al mondo della musica. Il numero è ridicolo se confrontato alle 5.175 startup fondate nel settore mobile, alle 7.987 in quello dei servizi digitali, alle 1.800 nell’ecommerce. Il tasso di successo delle startup musicali, inoltre, è di circa il 4 per cento, contro circa il 25 di quelle che operano in tutti gli altri settori. Questo significa che delle 175 startup americane più di 150 sono fallite, in buona parte a causa delle condizioni onerose e degli ostacoli legali imposti dalle major. Insomma, come Saturno che divora i suoi figli, l’industria discografica non è riuscita a trovare soluzioni alla crisi del digitale perché ha soffocato tutte le possibili buone idee che nascevano al suo interno. Adesso si trova a combattere con YouTube, e pur guardando la lotta da un altro settore messo in crisi dal digitale, viene voglia di fare il tifo per l’innovazione.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.