Yahoo crolla, il mercato cambia, ma c'è chi sopravvive. Strategie

Eugenio Cau
L’81 per cento dei grandi capitani d’industria soffre di FOBO, “fear of becoming obsolete”, paura di diventare obsoleto, e sostiene che l’ethos della start up ormai abbia permeato tutto il business. Per resistere alla disruption la prima regola è sempre applicarla su se stessi.

Roma. “Prima di Yahoo, internet era soltanto un progetto di ricerca del governo”. Marissa Mayer, ceo di Yahoo, non avrebbe potuto spiegare meglio, nella lettera inviata lunedì ai suoi dipendenti, il ruolo da vero pioniere della compagnia da lei guidata. Per molti anni, tra la fine dei Novanta e l’inizio dei Duemila, periodo topico, Yahoo ha plasmato internet con il suo motore di ricerca e i suoi servizi innovativi, diventando una delle più grandi compagnie del mondo, che al momento del suo massimo splendore, nel gennaio del 2000, era valutata 125 miliardi di dollari. Questa settimana, lo sappiamo, Yahoo si è venduta alla società di telecomunicazioni Verizon per 4,8 miliardi di dollari, una frazione del suo valore di quindici anni fa, dopo una storia lunga e dolorosa di occasioni perse, errori di management, miopia corporativa.

 

Già prima della sua svendita, gli analisti americani parlavano di Yahoo come di una “cautionary tale”, di una storia di ammonimento per le grandi compagnie su cosa non fare per non perdere la propria posizione dominante di mercato – e Yahoo, negli anni del suo apice nel 2000, era internet. Ma forse più utile che ricordare i caduti può essere studiare i sopravvissuti. Cosa rende una grande compagnia capace di sopravvivere alle crisi, alla competizione, all’ambiente avverso, alle sfide lanciate da start up più ambiziose, all’istinto naturale di perdere slancio una volta che si è raggiunto il culmine? La lista di chi sale e chi scende in questo senso è impietosa. Prendiamo gli ultimi quindici anni circa, e partiamo dal 2000, anno dell’apice di Yahoo, al liminare dell’esplosione della (prima) bolla di internet e momento di apertura della grande èra digitale che oggi viviamo. Allora, in America, le dieci più grandi compagnie quotate per valore di mercato selezionate dall’indice Ft500 del Financial Times (di queste, otto facevano anche parte dell’elenco delle più grandi del mondo) ricoprivano una molteplicità di settori economici, dall’energia al digitale alla grande distribuzione al farmaceutico.

 

Oggi, cinque delle dieci società più grandi d’America per valore di mercato (oltre che le prime quattro in classifica) appartengono al digitale e alla Silicon Valley: sono Apple, Alphabet, Microsoft, Amazon e Facebook (il termine Silicon Valley ormai può essere inteso in senso lato: Amazon e Microsoft sono di Seattle). Rispetto al 2000, solo tre società sono sopravvissute nella top 10: General Electric, Exxon e Microsoft. Guardando le classifiche, appare evidente la rivoluzione che si è compiuta in questi anni: il digitale, il web e la Silicon Valley hanno conquistato l’America, avviando una concentrazione economica e finanziaria che ha pochi precedenti. Un pugno di compagnie tutte riferibili allo stesso settore economico ha in mano una fetta enorme del mercato americano, e come dice da tempo il guru digitale e libertario Peter Thiel, fondatore di PayPal e primo finanziatore di Facebook, questo influenza il tessuto imprenditoriale dell’America anche dal punto di vista geografico.

 

 

 

 

Una ricetta semplice, dunque impossibile

 

Se si chiede a un esperto qual è la ricetta che una compagnia deve seguire per sopravvivere nel prossimo decennio, la risposta sarà scontata e sintetica: innovazione. Ma quando l’innovazione deve essere applicata a una compagnia da migliaia di dipendenti e centinaia di miliardi di dollari di fatturato, il discorso si fa più complesso. Per una grande società all’apice del suo successo può essere quasi impossibile tenere insieme la cura del proprio core business e al tempo stesso avere le energie per generare nuove idee al proprio interno, specie in un’èra come questa in cui innovazione e crescita sono diventati sinonimi, e l’economia digitale ha velocizzato i processi di disruption a tal punto che interi settori arrivano vicini al crollo in pochi anni. Migliaia di start up attaccano alle caviglie i giganti fino a diventare giganti loro stesse, e la velocità dell’innovazione è così vorticosa che per una grande compagnia è quasi impossibile starvi dietro.

 

Non a caso General Electric, uno dei pochi grandi sopravvissuti nella top ten in questo quindicennio, pubblica tutti gli anni un Barometro dell’innovazione globale in cui intervista migliaia di dirigenti d’impresa (2.748 nell’edizione del 2016) e di rappresentanti del “pubblico informato” (1.346 nel 2016) interrogandoli sui nuovi trend del business, e ogni anno il numero dei grandi capitani d’azienda terrorizzati dalla FOBO cresce costantemente. FOBO sta per “fear of becoming obsolete”, paura di diventare obsoleto, e ne soffre l’81 per cento dei dirigenti intervistati, che vive il cruccio continuo che la sua azienda diventi la prossima Yahoo, la prossima Aol, la prossima Kodak. L’ethos della start up permea l’intero mondo del business, come ritiene ancora l’81 per cento degli intervistati da General Electric, e i grandi ceo si arrovellano su come trovare innovazioni rivoluzionarie tanto quanto gli squattrinati programmatori della Silicon Valley. In un lungo profilo apparso su Wired nel 2014, proprio i dirigenti di Ge annunciavano piani per “gestire l’azienda come una start up”, usando sistemi di crowdsourcing per individuare le idee migliori.

 

Ma appunto, per una grande compagnia innovare non è affatto facile. In un suo saggio del 2000, il professore di Harvard Clayton Christensen notò per primo che l’innovazione può essere di due tipi: o “sustaining”, graduale, di sostentamento, oppure “disrupting”, distruttiva, rivoluzionaria. Le grandi compagnie sono brave nella manutenzione, nella gradualità, ma la disruption è quasi impossibile da gestire al proprio interno. Sempre secondo Ge, il 58 per cento dei capitani d’azienda intervistati intende concentrarsi sul “miglioramento dei prodotti e dei servizi esistenti” (l’innovazione graduale) e solo il 34 per cento si concentrerà sullo “sviluppo di nuovi modelli di business” (l’innovazione disruptive). La Silicon Valley, patria della disruption, ha adottato alcuni sistemi di sopravvivenza. Google, quest’anno, si è divisa tra i suoi vari settori e ha creato Alphabet proprio per mantenere la flessibilità, la concentrazione e la competizione interna tipiche di una start up. Tutti puntano molto sulla “intrapreneurship”, sull’imprenditorialità interna, principio secondo cui ai dipendenti è concesso del tempo per sviluppare progetti personali (da questi progetti personali sono nati Gmail e iTunes, per esempio).

 

 

Disruption e paranoia

 

Ma le cose, ha scritto la Harvard Business Review in un suo numero speciale dell’ottobre dell’anno scorso, si stanno facendo sempre più difficili, tanto per il peggioramento dell’ambiente economico quanto per l’emergere di nuovi forti competitor soprattutto in Asia – quanto, aggiungiamo noi, per una temperie politica sempre più avversa al libero commercio e spaventata dalle ricadute della globalizzazione. La prima soluzione, ovviamente, è applicare una “auto disruption radicale”. Come mostra una ricerca di McKinsey che ha analizzato i trasferimenti di capitale interni alle aziende tra il 1990 e il 2005, le società capaci di riallocare i propri capitali in risposta a una cambiamento di condizione sono quelle che raggiungono una crescita maggiore. Gli investimenti devono concentrarsi sugli asset intellettuali – big data, algoritmi, software – perché i business ad alto tasso di idee sono i più promettenti in tutti i campi. Soprattutto, le compagnie dovranno andare alla guerra per i migliori talenti in tutto il mondo molto più di quanto già non facciano, e in maniera agguerrita, già adesso. Ma il primo consiglio della Harvard Business Review è quello di diventare sempre più “paranoici” (nei confronti della concorrenza, della competizione, dell’apertura di nuove opportunità). Anche in questo caso, i ceo della Silicon Valley hanno molto da insegnare.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.