L'uomo è il vero dato da conoscere per capire il senso della tecnologia
Rimini. Si rimane incuriositi, vagando per i padiglioni della Fiera di Rimini, in questi giorni di Meeting, da uno spazio strano, diverso sia dai canonici stand che ospitano le mostre sia dalle sale degli incontri. “E’ una non-mostra”, ci spiegano i curatori, ed è divisa in tre luoghi distinti: un piccolo palco con alcuni posti a sedere davanti, dove ogni giorni relatori diversi chiacchierano dell’impatto che la tecnologia ha sulla vita, la scienza, la letteratura, la politica e la medicina. Poi c’è una grande parete con diverse frasi, che prova a lanciare domande che si è soliti porsi quando si ha a che fare con la realtà virtuale, i computer, gli smartphone o il progresso nel campo della ricerca, medica e non. Infine un’ultima zona, in cui i visitatori possono provare a far volare un piccolo drone con le proprie onde cerebrali.
“What’s human about technology?” è la domanda che accompagna questa non-mostra, ed è lo stesso quesito che poniamo a uno dei curatori, l’astrofisico Marco Bersanelli. Con una premessa, che è poi una citazione di Johnatan Franzen, in cui lo scrittore americano dice con un paradosso che l’assenza di limiti alla lunga crea una prigione.
“La tecnologia sta facendo emergere domande affascinanti, e quello che tentiamo di fare qui è guardare il problema con un’apertura consapevole della sua complessità, in un dialogo critico con interlocutori e punti di vista diversi. Quella del limite è una delle questioni cruciali, ed è vero che essere senza limiti ci chiude in una prigione. L’osservazione di Franzen è acuta: andare al ristorante e avere infinite opzioni nel menù non ci rende più liberi, ma ci impedisce di scegliere”, spiega Bersanelli, che esce dalla pigra premessa di tante discussioni da bordo piscina sulla tecnologia: non è buona o cattiva in sé, dipende da come la si usa.
La tecnologia, dice Bersanelli, non è soltanto l’uso di uno strumento, ma la sua pervasività nell’ambito della vita quotidiana ne ha fatto “un filtro attraverso il quale guardiamo noi stessi”. Inseguiamo Pokémon, giochiamo con la realtà virtuale di Oculus, abbiamo lo spazio visivo occupato dai Google Glass che aumentano una realtà che non sembra bastare nella sua versione standard, ci autorappresentiamo con selfie che condividiamo nella dimensione fuggevole dell’istante, tanto che non è chiaro se è soltanto il nostro modo di conoscere la realtà o la realtà stessa a cambiare. “Si parte sempre da un dato, da qualcosa che c’è”, dice Bersanelli. “Noi manipoliamo e mettiamo insieme pezzi di un universo che è dato. Questo manipolare e mettere insieme arriva sempre di più a toccare il nostro rapporto quotidiano con la realtà. Pensiamo ai rapporti con le persone, sempre più mediati da comunicazioni digitali: la tecnologia interferisce sullo sguardo che abbiamo sulle cose. Diventa così sempre più importante saper giudicare cosa è utile e corrispondente alle nostre esigenze umane più profonde o cosa allontana dalla nostra vera esigenza”.
Eppure la pretesa titanica della tecnologia, o almeno della sua versione ideologica, è proprio quella di modificare la struttura della realtà, di sostituirsi all’universo dato e di manipolare le esigenze del soggetto: “La tecnologia usa il dato per uno scopo. L’uomo è intrinsecamente tecnologico, ha il dono di saper usare la realtà per conoscerla di più e migliorare le proprie condizioni. L’ideologia tecnologista tende a dimenticarlo e rende illusoria la realtà a favore di quello che creiamo noi. La grande ricchezza è quella di potere cogliere aspetti della realtà altrimenti inaccessibili. Nella scienza è sempre così: grazie a certi strumenti noi entriamo in rapporto con aspetti inaccessibili dell’universo. Le onde gravitazionali sono un esempio lampante in questo senso, perché non le ‘vediamo’ con i sensi, eppure possiamo dire che ci sono: la realtà rimane un dato: l’onda gravitazionale o c’è o non c’è. O la tecnologia serve per arrivare a toccare certi aspetti della realtà o si sostituisce ad essa e la simula”.
Ma oggi la tecnologia, nella sua onnipresenza digitale, ha una tendenza strutturale ad allontanarci dalle esigenze umane più profonde, lasciandoci navigare in acque sempre più superficiali? “Questa tendenza esiste, ma non è nuova. C’è una sovraesposizione che amplifica in modo esagerato questa tentazione antica. Oggi la pervasività della comunicazione digitale tende ad esempio ad attenuare il rapporto con la fisicità del reale. Sia nel rapporto tra le persone sia in quello tra l’uomo e la natura. Non si tratta però di eliminare la tecnologia, ma di porsi il problema dell’educazione, cioè della capacità di far emergere un individuo in grado di giudicare cosa è più corrispondente”, dice Bersanelli, che assieme agli altri curatori ributta le laceranti questioni che la pervasività della tecnologia suscita sulla conoscenza del soggetto che la utilizza, non sulla mera descrizione dei mezzi che ogni giorno ci portano un passo più in là nel futuro. Non è poco per una non-mostra.