Perché non basteranno mille e più convegni a farci digerire l'innovazione
Innovare stanca? Il prof. Bucchi ha un’idea sul motivo
Roma. “Se le statistiche internazionali su ricerca e innovazione tenessero conto del numero di manifestazioni e convegni organizzati su questi argomenti, non c’è dubbio: come Italia non saremmo secondi a nessuno”. Inizia così “Per un pugno di idee”, l’ultimo libro di Massimiano Bucchi, professore di Scienza, tecnologia e società all’Università di Trento, pubblicato da Bompiani. Tuttavia, come ovvio, le statistiche internazionali non tengono conto del numero dei convegni in materia ma della mole di investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle aziende (0,7 punti di pil per l’Italia, a fronte di una media Ue dell’1,2 per cento), o del numero di “tecnoesclusi”, cioè di coloro che sono completamente tagliati fuori dalle tecnologie digitali a eccezione del telefono cellulare (nel nostro paese trentaquattro persone su cento non hanno mai usato né internet né il computer), eccetera. L’Italia non brilla come paese di frontiera delle novità tecnologiche, ma è indubbio che problemi di “ricezione” di tutto ciò che è nuovo stiano sorgendo un po’ ovunque nei paesi di antica industrializzazione. Sabato scorso, su queste colonne, Calestous Juma – professore di Harvard e autore del libro “L’innovazione e i suoi nemici” – ha tentato addirittura di individuare un filo rosso in secoli di opposizione a ogni innovazione, dal caffè agli organismi geneticamente modificati.
Bucchi, parlando con il Foglio, si dice convinto come Juma del fatto che “una posizione di chiusura preconcetta è ovviamente da respingere”, ma aggiunge che “conta il contesto storico e sociale in cui l’innovazione si colloca, e questo va analizzato con attenzione almeno pari a quella che dedichiamo alle singole novità”. Soprattutto perché “le implicazioni di una qualsiasi innovazione, quasi sempre, non sono note nemmeno all’inventore della stessa. Quando Thomas Edison inventò il fonografo e stilò una lista delle sue possibili applicazioni, posizionò al primo posto varie forme di utilizzo da ufficio e all’ultimo posto la musica. Nella storia, è andata all’opposto”. Secondo il professore dell’Università di Trento, tale situazione non equivale ad auspicare un ruolo ancora più interventista dello stato legislatore o regolatore nella speranza di contenere lo spiazzamento dei cittadini: “Già il sociologo William Fielding Ogburn (m. 1959, ndr) elaborò la teoria del ‘ritardo culturale’, secondo la quale i mutamenti della cultura non materiale, incluse le norme e le leggi, si sviluppano più lentamente dei cambiamenti della cultura materiale. Lo stato regolatore è condannato quasi sempre a inseguire. Non a caso le prime norme statali sulla sicurezza delle automobili sono arrivate a quasi 100 anni di distanza dalla prima vittima in un incidente stradale”.
Un caso oggi molto discusso riguarda i media digitali: “Si sono a lungo sottostimate le implicazioni fiscali e giuridiche, la responsabilità e l’impatto sulla privacy di nuovi canali informativi e social network. Eppure è noto che non esiste una innovazione che abbia ricadute soltanto positive. Perfino l’ecografia, in paesi come l’India e la Cina, è stata utilizzata per selezionare le nascite in base al sesso”. Che fare, dunque? “Rivalutare il ruolo della consapevolezza dell’utilizzatore di una tecnologia – dice Bucchi – Immaginare che un algoritmo possa fare piazza pulita delle bufale sui social network è una pia illusione, una comoda scorciatoia tecnologica per evitare di affrontare un problema sociale e culturale. Da una parte perché una tale deriva paternalista potrebbe diventare un freno a ulteriori innovazioni. Dall’altra perché si tende a sottovalutare la responsabilità dell’utilizzatore dei social network: basterebbe investire in ciò un milionesimo di quanto oggi spendiamo in decine di piani per l’infrastrutturazione tecnologica, favorendo così una autoregolazione diffusa e soft nel campo dei media digitali”. Conclude Bucchi: come emerso anche recentemente su questioni come i vaccini, che spesso in Italia sono rifiutati proprio dalle persone mediamente più istruite, la “responsabilizzazione degli utilizzatori” rimane l’unico antidoto a un atteggiamento “opportunistico e spesso schizofrenico” che oggi abbiamo rispetto alle innovazioni.