Terze parti no, grazie
Il problema non è staccare un po’ dai social, ma capire come usarli in modo adeguato
L’Harvard Business Review spiega in un importante articolo che non si può lasciare la cura dei social aziendali solo all’ufficio marketing. Sono troppo importanti per abbandonarli in mano a “terzi”, come rileva un bell’articolo di Internazionale dove Annamaria Testa nota come la cultura social sia ancora in ascesa e come sempre più domini l’economia. D’altro canto, l’articolo conclude con qualche timore su questo sviluppo. I social sono tanto importanti, è vero, ma ci stanno disumanizzando. La conclusione richiama un monito che, dalle mamme al Papa passando per i professori di ogni grado, è ormai onnipresente in chi ha responsabilità educative: non esagerare con questi social, non stare sempre attaccato a quel cellulare, mio Dio come ci stiamo riducendo.
Ora, è una buona regola di pensiero quella di cominciare con il rispettare il senso comune, magari per poi criticarlo. Se le persone si trovano tanto bene sui social è perché vi trovano qualcosa di interessante e la prima risposta, superficiale, sarebbe quella di dire che è sufficiente che gli interlocutori non social siano altrettanto vari e interessanti. Ma una risposta più approfondita, che rispetti anche il disagio, fa guardare alla natura dei social e dell’elettronica che li supporta.
Quello dei social è un vero cambiamento? I social hanno solo accentuato una delle caratteristiche elementari del nostro essere, ossia la nostra fondamentale natura comunicativa. L’intero cosmo comunica in ogni modo, con i suoi simili e con i suoi dissimili. L’uomo, animale simbolico, è per eccellenza capace di capire la comunicazione che deriva da altre forme viventi, fino al punto da inserirle nelle proprie narrazioni, inclusa in quella fortunata narrazione che è la scienza. Quando capiamo le proprietà di una pianta o le potenzialità di un embrione stiamo assecondando la comunicazione della natura così come quando la diciamo “bella” perché ordinata. Riccardo di San Vittore lo aveva già espresso molto bene nella sua estetica, e Agostino e Tommaso avevano fatto capire che l’essere intero – addirittura la Trinità, nel loro linguaggio – è comunicazione o amicizia.
Che cosa cambiano i social? Qualcosa cambiano: sono velocissimi e capaci di legare in una rete persone di ogni dove. Da questo punto di vista, però, l’incremento è più quantitativo che qualitativo. Per quanto riguarda la qualità il cambiamento effettivo prodotto dai social è quello che la Harvard Business Review fa notare: non c’è più separazione tra produzione, commercializzazione, pubblicità, consumo ecc. Si è creata una continuità, ben evidente per esempio nel caso dei beni culturali, che lega l’oggetto alla sua fruizione. Alla Harvard stavolta hanno ragione: non si può affidare solo al reparto marketing la gestione dei social network, così come non la si può affidare soltanto al reparto divulgazione o comunicazione esterna di un museo. La comunicazione è parte della produzione come è parte del lavoro dell’archeologo. E lo stesso discorso vale per i social della comunicazione politica i quali non possono che essere personali e personalizzati. In due parole: i social sottolineano la natura della realtà come comunicazione continua.
Un cambiamento profondo
Il vero cambiamento, nel profondo, è l’hardware, il mezzo di produzione e di trasmissione dei messaggi. Questo sì che è un cambiamento radicale, anche se non apocalittico. Passare all’elettronica ha comportato e comporta un cambiamento profondo di abitudini. Siamo spesso attaccati agli strumenti elettronici, l’attenzione diventa più frammentaria anche se spesso diversificata, la memoria cambia aspetto (non ricordiamo più i numeri di telefono a memoria mentre, anche se stiamo facendo qualcosa d’altro, ci ricordiamo la frase che è appena stata detta per verificarne i riferimenti su Wikipedia). Sì, si tratta di cambiamenti profondi, gran parte dei quali deve ancora essere studiata, ma analoghi cambiamenti sono avvenuti nell’immenso passaggio tra la cultura orale e quella scritta, come ha acutamente fatto emergere Walter Ong, e tra la cultura della scrittura a mano e quella della stampa.
Certo, il mezzo cambia molto del messaggio e modifica comportamenti sociali e mentali ma questo non significa che ci sia un’alterazione fondamentale dell’uomo. Riusciamo a capire e a commuoverci per le grotte di Lascaux come per Dante, rappresentanti di culture comunicative precedenti. In ciascuna di esse ci sono perdite e guadagni. Non si deve aver paura del cambiamento dei mezzi né cercare di spostare la vicenda su un piano morale: non c’è nessuna apocalisse in corso e il problema dei social networks non è morale. Ovviamente, come per uno che avendo scoperto la penna da scrivere non se ne staccasse più o per uno che non si staccasse mai dai libri – neanche quando mangia – si possono stabilire regole elementari di buona educazione. Ma in sostanza il cambiamento va capito e assunto fino in fondo, prendendo consapevolezza dei pregi e dei limiti degli strumenti nuovi, usandoli per ciò a cui servono e non per ciò che non possono fare. E’ un’educazione alla conoscenza e non un richiamo morale che ci aiuterà a staccarci da queste protesi elettroniche, o meglio a rimanerci attaccati in modo adeguato.
Cose dai nostri schermi