La libera impresa batte i pirati
Spotify, Netflix & Co. hanno combattuto la pirateria digitale meglio di tutte le leggi approvate in questi ultimi anni. E non sono chiacchiere, i dati di uno studio inglese lo dimostrano
Era il gennaio del 2010 quando il presidente della Motion Picture Association of America (Mpaa) – associazione americana dei produttori cinematografici – lanciò l’allarme in una conferenza stampa a Hollywood: “La pirateria sta dissanguando la cinematografia, ben presto arriverà il momento in cui molti produttori saranno costretti a chiudere. Servono leggi severe per contrastare questo malcostume”. Esattamente sei anni dopo la notizia della morte della cinematografia è fortemente esagerata. E soprattutto non è attinente alla realtà. La pirateria non ha svuotato le sale, anzi: il ricavo globale ai botteghini era di 31,6 miliardi di dollari nel 2010, ha raggiunto quasi i 40 miliardi nel 2016 (stima sui dati ufficiali di novembre 2016), ossia il 26,6 per cento in più in sei anni.
Era l’aprile 2011 e un altro allarme risuonava all’interno del mondo culturale americano. Non più il cinema, questa volta era la musica a dichiararsi preoccupata: “La pirateria sta logorando l’industria culturale. Senza un intervento che tuteli gli artisti e i produttori dai ladrocini del web, il mercato sarà costretto a un inevitabile tramonto”, si leggeva in una nota della Recording Industry Association of America (Riaa), che rappresenta l’industria discografica statunitense. L’apocalisse sembra però essere rientrata e nessun fallimento generale del settore si è verificato. Anzi, le cose vanno meglio di quello che era lecito pensare: i ricavi globali sono aumentati dell’8,1 per cento su base annua e nel primo semestre del 2016 hanno toccato quota 3,4 miliardi di dollari, segnando la crescita più decisa dalla fine degli anni Novanta.
Il mercato cresce nonostante la contemporanea crescita del volume di file piratati messi online: erano 674 petabyte mensili (un petabyte equivale a un milione di gigabyte) nel 2010, sono diventati 932 petabyte al mese nel 2016, secondo i dati forniti da Cisco. La pirateria quindi sembra non essere sconfitta. Cos’è cambiato allora?
“A essere mutato è il panorama generale”, dice al Foglio Frederich Hekstram, ricercatore della Technische Universität di Berlino, un passato da hacker e un presente a studiare le dinamiche di flusso del mercato dei media culturali. “La pirateria, almeno in ambito cinematografico e musicale è viva, si muove come si muoveva un tempo e fa quello che faceva un tempo: riversa nel web gratuitamente materiale che altrimenti sarebbe utilizzabile e consultabile soltanto a pagamento”. Il punto non è dunque la sua vitalità, ma il suo palcoscenico, “che da almeno quattro anni è mutato radicalmente e che ora ha perso l’estensione e l’invasività di un tempo. Si può affermare che si sta chiudendo, o forse si è chiusa definitivamente un’epoca”. Il perché è presto spiegabile: “L’ingresso del mercato ha avuto due conseguenze principali: ha reso più semplice la fruizione dei contenuti e ne ha abbassato i costi”. L’ingresso nella scena Netflix, Spotify, Deezer, Sky on demand, Cubovision e tutte le altre aziende che compongono l’universo dei servizi in abbonamento o on demand di materiale audiovisivo, “ha reso evidente come la pirateria non fosse un atteggiamento anarchico e rivoltoso nei confronti di major e produttori indipendenti – continua Hekstram –, ma solamente una conseguenza dell’incapacità di questi soggetti economici di modificare la propria tipologia di business nel momento in cui cambiava il mezzo di diffusione”.
Un cambiamento che può essere notato anche dai dati Cisco, se correttamente analizzati: “E’ vero che il volume di file piratati che si trovano online è cresciuto, ma ci sono due fattori da tenere in considerazione: il primo è il pregresso, ossia ogni file nuovo si accumula all’insieme dei file già presenti; il secondo è la grandezza di questi, che sono cresciuti, aumentati esponenzialmente di dimensione: se anni fa un film pesava qualche centinaia di megabyte, ora supera i 2 o 3 giga”.
A tal proposito è interessante analizzare quanto emerso da uno studio condotto dalla A&W Media Research Center, società inglese di analisi digitale che monitora il web per diverse grandi società di produzione e di commercializzazione di prodotti audiovisivi. Secondo la ricerca il numero di file che violano i copyright presenti online sono cresciuti regolarmente dal 2010 al 2016 di un 16 per cento medio all’anno, superando lo scorso primo dicembre – data in cui è terminato il monitoraggio – il miliardo di link pirata attivi (il totale tiene conto sia di link per il download sia per la visione in streaming). Una crescita inversamente proporzionale agli accessi: negli ultimi sei anni infatti i click complessivi che questi indirizzi hanno totalizzato è diminuito regolarmente, con i picchi negativi tra il 2014 e il 2015 e tra il 2015 e il 2016 corrispondenti a meno 19,8 e a meno 29,2 per cento. A essere cresciuto nello stesso tempo è il numero di link “a visualizzazioni zero”: erano il 7,3 per cento del totale nel 2010, sono il 26,2 per cento durante l’ultimo anno preso in considerazione dallo studio.
Un calo generale che ha vette rilevanti soprattutto tra quanti – specie i più giovani e chi ha superato i 32 anni di età – utilizzavano regolarmente il web per la visione (almeno una volta al mese) di film e serie tv e per l’ascolto di musica tramite servizi di streaming e download illegale. Se infatti gli utenti tra i 21 e i 32 anni continuano a ricorrere, anche se in modo minore, alla visione di materiale piratato, così non è per chi nel 2010 non rientrava in queste fasce d’età.
Intersecando i dati della società inglese tra le due classi d’età, 15-25 anni nel 2010 e 21-31 nel 2016, si evidenzia che il numero dei fruitori ha subìto una variazione sensibile, meno 15,1 per cento, passando dal 70,7 al 55,6, ma decisamente inferiore allo scenario generale.
Chi insomma aveva l’abitudine di fare ampio ricorso a materiale piratato ha cambiato solo parzialmente il proprio rapporto con la fruizione di contenuti sotto copyright. Per tutti gli altri invece il discorso è molto diverso.
Effettuando una comparazione semplice per fasce d’età, infatti, la situazione è mutata radicalmente. Nel 2010 il 68 per cento dei ragazzi tra i 15 e i 18 anni che utilizzavano regolamente il web ricorreva a download e streaming illeciti, ora sono diventati il 39,2: 28,8 punti percentuali in meno; tra i 18 e 21 anni di età la percentuale è passata da 72,3 al 48,5, meno 23,8 punti percentuali. Le decrescite minori si sono registrate tra i 22 e i 25 anni e tra i 26 e i 31, meno 7,5 e meno 8,2 per cento, mentre crolla tra i 32 e i 40 e tra i 40 e i 50: erano rispettivamente il 50,2 e il 24,8, sono diventati nel 2016 il 15,1 e il 4, una diminuzione quindi di 35,1 e 20,8 punti percentuali.
I 100 milioni di utenti attivi in 59 paesi di Spotify, gli 87 milioni iscritti a Netflix, oltre ai 20 milioni ad Apple Music, i 5 milioni a Deezer, hanno sicuramente avuto un peso importante in questo cambio di atteggiamento verso la fruizione in rete di materiale audiovisivo. Ma il loro successo è stato reso possibile da un mutamento delle abitudini di utilizzo del web: il passaggio da una visione di internet come luogo totalmente gratuito a una che prevede una predisposizione al pagamento. Insomma, il graduale passaggio da una concezione del web come “free to play” a una che prevede il “pay to play”.
Un sondaggio inserito nello studio rende lampante il cambiamento di dinamica. Se infatti nel 2010 il 75,7 per cento degli intervistati riteneva giusto pagare una somma di denaro per la fruizione online di materiale audiovisivo, ma solo il 7,3 era disposto ad abbonarsi o ad acquistare un servizio, nel 2016 i primi hanno raggiunto il 90,1 per cento del totale e i secondi sono arrivati al 61,4 per cento. Il perché lo spiega un’altra domanda del questionario. Sette anni fa solo il 3,4 per cento degli intervistati riteneva che esistessero servizi commerciali affidabili e/o convenienti per lo streaming o il download, una fetta largamente minoritaria rispetto al 77 per cento di scettici e al 19,6 di persone che consideravano il mercato online perfettibile. A dicembre dell’anno scorso invece chi ritiene che esista un servizio adatto alla visione online di film e serie tv e all’ascolto di musica era il 74,9 per cento degli intervistati, chi riteneva questo perfettibile e il 20,2 per cento, gli scettici il 4,9.
L’unico dato che rimane pressoché costante in questi ultimi sei anni è quello riguardante chi crede che una normativa stringente contro la pirateria possa contribuire a sconfiggerla o quanto meno a ridurla in modo sensibile: era il 15,8 per cento nel 2010, è l’11,1 per cento nel 2016. “L’idea che una stretta legislativa alla pirateria possa sradicare il problema”, si legge nelle conclusioni dello studio, “è soltanto una illusione. In oltre dieci anni di dibattito, di leggi e di arresti, il ricorso a materiale piratato non è diminuito. Punire chi usufruisce di questi servizi illegali è poi oltremodo complicato e dispendioso per l’autorità statale. L’unico modo per difendere i materiali sotto copyright è quello di creare un modello di business il più possibile vicino ai bisogni dell’utenza. E quanto introdotto dai servizi streaming e on demand è solo il primo passo”.