Che noia la retorica di chi dice che i ragazzi sono zombie drogati da smartphone
Da quasi dieci anni, a intervalli semi regolari escono sul tema libri allarmistici, ricerche pseudoscientifiche, documentari angoscianti: gli schermi led degli aggeggi tecnologici stanno trasformando i nostri bambini in drogati
Roma. Steve Jobs, compianto fondatore di Apple, l’uomo che ha donato l’iPhone al mondo e incatenato oltre un miliardo di persone al piccolo schermo (fortunatamente di dimensioni crescenti negli anni) del loro smartphone, era un “low tech parent”. Vale a dire, un genitore che limita, e di molto, l’accesso dei propri figli alla tecnologia – compresa quella da lui stesso creata. Jobs era convinto, come tanti altri, che bisognasse limitare lo “screen time” di bambini e ragazzini, perché i gadget tecnologici hanno una natura narcotica e generano una dipendenza spesso incontrollabile. Dai tempi di Steve Jobs, il tema dei drogati da smartphone ha fatto molti passi avanti, fino a trasformarsi in un tormentone ricorrente sui media e nella conversazione comune.
Da quasi dieci anni, ormai, a intervalli semi regolari escono sul tema libri allarmistici, ricerche pseudoscientifiche, documentari angoscianti: gli schermi led degli aggeggi tecnologici stanno trasformando i nostri bambini in drogati!, urlano gli scienziati del momento, per poi essere corretti da nuovi studi che mostrano come in realtà siano gli adulti i più dipendenti da social network, fino alla prossima rivelazione.
L’ultimo libro sul tema è uscito questo mese in America e si intitola “Irresistible: The Rise of Addictive Technology and the Business of Keeping Us Hooked”, dove l’allarmismo cola da ogni parola. Martedì il New York Times ha pubblicato un articolo per raccontare come ci sia una correlazione possibile tra l’aumento dell’uso degli smartphone da parte dei teenager e la diminuzione negli ultimi anni dell’assunzione di droghe da parte dei ragazzini americani della stessa fascia d’età. Il dato è interessante: i liceali americani si drogano sempre meno e fumano sempre meno sigarette. Nessuno sa le cause scientifiche di questo fenomeno, ma il Nyt lo ricollega forzatamente all’uso degli smartphone contravvenendo platealmente al principio del “correlation does not imply causation”. In tutto il pezzo, c’è quasi un senso di nostalgia per il fatto che i diciottenni americani hanno smesso di farsi le canne e stanno tutto il giorno attaccati a Snapchat come zombie. In Cina, la dipendenza dagli smartphone è considerata così pericolosa socialmente che sono state aperte cliniche di disintossicazione e le amministrazioni delle città hanno avviato delle campagne di responsabilizzazione pubblica.
Che esistano comportamenti compulsivi e clinici legati agli smartphone è innegabile. Ma la conversazione di questi anni ha assunto un tono da “signora mia, che tempi” che fa di tutti i vizi una malattia, e ricorda le insensate preoccupazioni di fronte ai “nuovi fenomeni” da parte di chi non li conosce con sufficiente profondità. Gli stessi allarmismi si erano scatenati nei decenni passati per la dipendenza da televisione, per fare un esempio. Con gli smartphone si lavora, si fruiscono contenuti, si instaurano relazioni. Spesso questi contenuti e queste relazioni non sono di livello inferiore rispetto a quelli che si trovano nel mondo “reale”, e non dovrebbero destare preoccupazione finché si tratta semplicemente di aggiungere una serie di capacità sociali “digitali” a una serie già esistente di capacità sociali “reali”. Se davvero la dipendenza da smartphone tiene lontani gli adolescenti dalle droghe, meglio. E chissà di quali sostanze si facevano i figli di Steve Jobs.
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