Caccia grossa ai big del web
Dietro la voglia di far piangere Google & co c’è la solita “ossessione anticapitalistica”
L’accertamento con adesione siglato da Google con l’Agenzia delle entrate ha rimesso sul banco degli imputati le multinazionali del web, accusate di pagare tasse irrisorie su enormi ricavi, comportandosi in modo socialmente irresponsabile. Premesso che in linea di massima lo scopo delle corporation è realizzare profitti a beneficio degli azionisti (tra cui figurano anche piccoli investitori e fondi pensione), e che le imposte rappresentano un costo per quanto possibile da minimizzare, vi è da chiedersi se il problema risieda nell’inadeguatezza delle regole che governano la fiscalità internazionale, nella loro elusione, oppure in una distorta percezione del fenomeno da parte dell’opinione pubblica, che trasforma le multinazionali nella vittima sacrificale di un’ossessione anticapitalistica.
Queste regole, ormai secolari, si ritorcono contro gli stati europei, in via di trasformazione da luoghi di produzione a luoghi di consumo
La vicenda che ha interessato Google coinvolge distinte questioni, malamente rappresentate dai media italiani. La pretesa dell’Agenzia delle Entrate si è appuntata sui ricavi di una fantomatica “stabile organizzazione occulta” italiana di Google Irlanda, individuata dagli organi investigativi in seno a Google Italia, i cui dipendenti sarebbero stati in realtà asserviti alla società irlandese, cioè utilizzati per concludere contratti di cessione di spazi pubblicitari con clienti italiani, nell’interesse di quest’ultima. A quel punto, con indubbia inventiva accertativa, è stato richiesto a tale “emanazione occulta” di Google Irlanda anche il versamento di ritenute su royalties in realtà erogate dalla casa madre irlandese, e non dalla sua “stabile” italiana, che nemmeno sapeva di esistere.
Questi funambolismi interpretativi mettono a nudo l’aspetto cruciale della questione: in assenza di una stabile organizzazione non può esservi alcuna pretesa impositiva, da parte dello stato di destinazione dei prodotti, sugli utili realizzati dall’impresa multinazionale, mentre la prassi volta ad accertare “stabili organizzazioni occulte”, oltre che per sua natura opinabile, è dirompente sulla pianificazione degli assetti societari, sul regolare svolgimento degli affari e sulle decisioni di investimento.
L’elemento cardine, nelle imposte dirette, risiede nel luogo di produzione del reddito, che non necessariamente coincide con quello di destinazione di prodotti e servizi.
I funambolismi interpretativi mettono a nudo la questione: senza una stabile organizzazione non può esservi alcuna pretesa impositiva
Non si tratta di una novità: anche le industrie tradizionali possono produrre in un luogo, e trasportare le merci in un altro, avere lo stabilimento in uno stato, e il mercato di sbocco in uno stato diverso: fino a che si limitano a “vendere a distanza”, senza dotarsi di basi fisse nell’altro stato, le imprese esportatrici hanno obblighi tributari solo nello stato di residenza. Lo stesso accade con le multinazionali dell’economia digitale, anche se queste possono a volte con maggiore facilità accedere ad altri mercati senza dotarsi di strutture fisse nel luogo di destinazione dei prodotti (si pensi al “commercio elettronico diretto”).
Queste regole, ormai secolari, costituiscono un retaggio delle politiche mercantilistiche degli stati occidentali, poco propensi a concedere potestà impositiva ai paesi meno sviluppati, di sbocco dei loro prodotti, in assenza di un insediamento fisso nell’altrui territorio. Oggi queste regole si ritorcono contro gli stati europei, in via di trasformazione da luoghi di produzione a luoghi di consumo.
Molti resoconti giornalistici hanno indagato il “giro dei soldi” di Google, i flussi delle royalties transitate tra Irlanda e Olanda, e finite in società residenti in paradisi fiscali. Peccato che questi flussi restino estranei alla fiscalità italiana: la tassazione degli utili prodotti dalla “stabile organizzazione occulta”, o le ritenute che questa avrebbe dovuto versare, prescindono infatti dalla destinazione finale dei ricavi accertati alla “stabile” italiana: il risultato sarebbe stato identico anche in caso di pagamento delle royalties alla società americana.
L'elemento cardine, nelle imposte dirette, è il luogo di produzione del reddito, che non sempre coincide con quello di destinazione dei prodotti
Le multinazionali come Google, che devono i propri ricavi allo sfruttamento di brevetti, software, algoritmi, etc., possono collocare gli intangibles nei paesi a minore fiscalità, ovviamente con più grande facilità di quanto si riescano a spostare stabilimenti produttivi. Ma l’erosione della base imponibile riguarda lo stato della casa madre, dell’azionista di riferimento, in questo caso gli Stati Uniti, non già il paese in cui si trova il mercato di sbocco dei prodotti.
Rispetto a queste tematiche, e alla loro distorta percezione, vi è il rischio di fughe in avanti. Basti pensare alla proposta di una “bit-tax” sui giga-byte scaricati via internet, dato non rappresentativo delle ricchezze da tassare, o a quella di istituire – sulla scorta dell’esperienza inglese – una presunzione di elusione dell’obbligo (inesistente) di insediare una stabile organizzazione in Italia, quando dato il contesto questa appaia l’ipotesi “normale”.
Si tratta di una visione dirigistica, che pretende di sostituirsi a preferenze e scelte organizzative delle imprese multinazionali, sostituendole con altre più gradite agli interessi erariali, trascurando che l’elusione tributaria non può prescindere da un aggiramento delle regole: ma un’impresa che vende in un altro territorio senza avvalersi di una “stabile organizzazione” non sta eludendo alcunché. Sta semplicemente esercitando, in negativo, la propria libertà di (non) stabilimento.