Vale la pena pagare per leggere le notizie?
I numeri dell'editoria americana sono incoraggianti ma in Italia lo scenario cambia. Il paywall è una questione culturale ancor prima che economica o tecnologica
Vale la pena pagare per leggere le notizie? È questa il grande interrogativo che turba il sonno della carta stampata in perenne crisi, ma si tratta allo stesso tempo della scommessa sulla quale si gioca la sopravvivenza dell’intero settore dell’informazione. I risultati del Q1 diffusi qualche giorno fa dal New York Times sembrano dare una risposta affermativa: nel primo trimestre dell’anno il celebre quotidiano a stelle e strisce ha registrato un incremento di oltre trecentomila abbonati digitali, un dato che lo stesso CEO Mark Thompson ha definito “sbalorditivo”. Il modello di sviluppo digitale del New York Times funziona, basti pensare che i ricavi pubblicitari dal sito sono cresciuti del 18,9% rispetto al primo quarto dell’anno scorso, contro un -17,9% dell’edizione cartacea. Ma quello del quotidiano newyorchese non è un caso isolato: altre testate americane hanno beneficiato dell’onda lunga delle elezioni e gongolano per un presidente che non fa mancare gli spunti per commenti e analisi. Così il Wall Street Journal dichiara di aver incrementato gli abbonati digitali di trecentocinquemila unità rispetto al 2016, il New Yorker di avere venduto duecentocinquantamila copie digitali nel solo trimestre novembre-gennaio, e con loro molti altri periodici annunciano risultati più che incoraggianti, tra essi il Financial Times e The Atlantic.
Il rapporto appena pubblicato Pay For News realizzato da Associated Press e American Press Institute rivela che il 53% degli americani accede all’informazione a pagamento, il 54% dei quali tramite un abbonamento ad un quotidiano. Dato interessante, un quarto degli intervistati che dichiara di non pagare per le notizie sarebbe disposto a farlo in futuro. Tradotto: l’utente non si preoccupa del prezzo se la qualità è alta, e ciò suggerisce l’esistenza di margini di crescita notevoli. Lo studio consiglia agli editori di investire su collaboratori sempre più esperti, provare ad attirare la clientela più giovane e pianificare una buona offerta di coupon promozionali.
La tendenza a fare sempre maggior ricorso al paywall è confermata anche dal Digital News Report 2016, elaborato dal Reuters Institute for the Study of Journalism dell’Università di Oxford. Il rapporto considera cruciale l’apporto delle notizie a pagamento per tamponare il calo dei ricavi della carta stampata causato, tra l’altro, dall’utilizzo sempre più frequente degli ad-blocker, i software che bloccano la visualizzazione degli annunci sul browser. Secondo lo studio l’Italia, con una percentuale di abitanti che hanno acquistato almeno un contenuto a pagamento nel corso dell’anno pari al 16%, si posiziona quarta in classifica dietro soltanto a Norvegia, Polonia e Svezia. Tuttavia – osservano gli autori – occorre precisare che questo dato comprende anche l’acquisto di una sola edizione di un qualsiasi periodico: considerando i soli abbonati stabili la percentuale crolla al 4%, portandoci in fondo alla classifica. Ciò che più impressiona però sono i dati relativi alla spesa media annua, che nello stivale è di solo ventotto sterline/anno, esigua rispetto alle ottantadue del Regno Unito, le sessantadue degli USA e le quaranta della Spagna. I dati dell’ADS (Accertamenti Diffusione Stampa) dipingono una situazione ancora più nera. Delle quasi quindici milioni di copie di periodici venduti in Italia ogni anno, solo mezzo milione – dunque il 3% – è in formato digitale.
Il paywall è dunque una questione culturale ancor prima che economica o tecnologica. Il fiorire di fake news dimostra che la montagna di dati messi a disposizione da internet e social network è nulla senza controllo. La vera scommessa perciò è convincere l’utenza che l’informazione non è data semplicemente dalla somma degli eventi che accadono, quanto il risultato di un processo critico di revisione che, se ben fatto, merita di essere adeguatamente remunerato.