Perché le dimissioni di Kalanick da ceo di Uber sono una rivoluzione per Silicon Valley
Kalanick è finito nella polvere, catapultato in una classica tempesta perfetta. Non solo le beghe in Europa e le liti legali con i concorrenti: la bomba è stato il rapporto di una dipendente che ha abbandonato l’azienda denunciando un clima da caserma
San Francisco. Tanto tuonò che piovve, e alla fine le dimissioni di Travis Kalanick, fondatore e ceo di Uber, sono arrivate oggi. Anticipate dal New York Times, poi confermate dall’azienda di San Francisco, il fondatore ha fatto sapere di “amare Uber più di ogni altra cosa ma in questo momento ritengo di dover rispettare la richiesta degli azionisti di fare un passo indietro”. Le dimissioni sono una vera rivoluzione per Silicon Valley intesa non solo come luogo fisico ma come bolla di futuro, futuro un po’ arrogantello in questo caso, però sempre futuro. Kalanick aveva fondato l’azienda più “disruptive” e allo stesso tempo più antipatica d’America e del mondo, partendo dal presupposto che una volta che tutti hanno un iPhone e che tutti sanno guidare, non ci sarebbe stato più bisogno di licenze e permessi. A San Francisco “to uber” è da tempo neologismo e verbo, le vetture con la U nera su fondo bianco sono parte preponderante del costume quotidiano, nel frattempo sono nati concorrenti – la principale è Lyft, partecipata da General Motors, in grande crescita.
Uber rappresenta però un po’ la prima repubblica di Silicon Valley, quella che voleva essere disruptive fino in fondo, senza ammantarsi di buonismo. Sfasciare la categoria dei tassisti, entrare e uscire dalle città a piacimento, qui a San Francisco dove c’è la sede si sono consumate battaglie notevoli, sono sbarcati nel settore dei trasporti senza chiedere niente a nessuno e quando le autorità hanno cominciato a prendere provvedimenti era troppo tardi. Anche col nuovo ritrovato, l’auto senza conducente, battaglie muscolari partendo dal presupposto che distruggere l’esistente per creare valore era comunque sempre buono.
Spesso non gli è andata bene, il sindaco di San Francisco li ha cacciati dalla città, così come sono stati cacciati dal Texas, dove si rifiutavano di fornire le impronte digitali dei guidatori, cacciati anche da molti paesi europei qui però per altri motivi, per le mitologie antiliberiste a tutela dei 3570 globali. Velocemente come era salito in vetta, Kalanick, roccioso quarantenne brizzolato, è finito nella polvere, catapultato in una classica tempesta perfetta. Non solo le beghe in Europa, non solo liti legali con concorrenti come Google per l’auto senza conducente: la bomba è stato il rapporto di una dipendente, l’ingegnera Susan Fowles, che nel febbraio scorso ha abbandonato l’azienda denunciando un clima da caserma. Sostiene d’esser stata mobbizzata perché un suo capo ci ha provato con lei, e l’azienda ha coperto tutto. La Fowles è diventata in breve tempo paladina di un movimento femminista in Silicon Valley, luogo storicamente di soli maschi – con un pedigree storico notevole, ai tempi della Corsa all’Oro causa business model minatorio San Francisco il rapporto era di 1 donna per 150 maschi, di qui l’invenzione della prostituzione e l’istutuzione di una capitale gay. Ma anche le varie facoltà informatiche frequentate solo da maschi occhialuti, e dunque un clima in cui “sessismo” è diventato la parola d’ordine del male assoluto, mentre le nuove startup anche colossali della seconda repubblica come Airbnb, quelle buone, predicano la “diversity”, il rispetto delle minoranze, c’è anche tutto un movimento che predica le startup “zebra”, quelle appunto buone, che migliorano la società, rispetto agli “unicorni”, cioè i colossi tipo Uber che fanno i miliardi senza ridare indietro niente.
Insomma Kalanick sembrava uno di quegli imprenditori molto avanti che però a un certo punto diventano impresentabili, e questa aura di “machismo” era ormai indelebile. A indagare sulle accuse di molestie era stata istituita una commissione aziendale con Arianna Huffington, storica giornalista, e Eric Holder, ex ministro della Giustizia, più una serie di legali che hanno consegnato un rapporto in cui si consiglia strenuamente di “cambiare la cultura aziendale” della compagnia. C’era stata poi la famosa “email di Miami” quando per un viaggio aziendale il ceo ha mandato a 400 collaboratori regole e consigli per festeggiare a un party aziendale. In un’atmosfera goliardica, magari non elegante però nemmeno riprovevole, Kalanick consigliava di “non fare sesso con altri dipendenti”, “A MENO CHE non glielo abbiate chiesto e abbiano risposto con un enfatico SI, VOGLIO FARE SESSO CON TE” (le maiuscole sono originali). E poi, continuava la mail padronale, è “vietato comunque fare sesso se i due - o più – dipendenti interessati lavorano nello stesso team”.
In un paese molto puritano e nella bolla di Silicon Valley, consigli di buon senso, forse un po’ machisti, risultati intollerabili. C’è poi il caso del karaoke con strip tease, altra vicenda in cui Kalanick fu molto vituperato: nel 2014, altro viaggio aziendale, dissero che andò in un karaoke un po’ sporcaccione in Corea, ma poi saltò fuori che c’era pure la fidanzata (violinista, all’epoca). Insomma, Kalanick il ruspante sembra un po’ la vittima sacrificale di un moralismo diffuso; la sua accusatrice Fowler, un po’ il teste Omega di Silicon Valley, twitta festeggiando perché “una persona sola può fare la differenza” ma ritiene che “non cambieranno mai, non chiederanno mai scusa, è tutta fuffa”. In effetti a Uber non stanno molto cambiando, almeno a goffaggine: proprio nella riunione che doveva decidere del “nuovo corso” post-sessista, il consigliere di amministrazione David Bonderman si è rivolto ad Arianna Huffington, capa della commissione femminista, sbuffando: “dai, lo sappiamo che le donne parlano troppo”. E’ stato subito dimissionato subito pure lui.
L’altra pistola fumante molto discutibile per Kalanick era il video di un autista che secondo la morale collettiva sarebbe stato maltrattato a Los Angeles. L’autista, che poi ha mandato il video ai giornali, aveva intercettato il principale con due ragazze e l'aveva importunato accusandolo di avergli fatto perdere “97 mila dollari” e di avergli rovinato la vita; perché l’autista medesimo s’era comprato una macchina a debito pensando di fare i gran soldi con Uber, mancando forse di acume finanziario e preveggenza. E il manager, invece che mandarlo a quel paese, gli aveva detto che forse non era stata una buona idea, e che lamentarsi non avrebbe migliorato le cose. Ma niente, ormai Kalanick era il cattivo di Silicon Valley, e certamente l’azienda non ha mai brillato a livello globale per acume di pubbliche relazioni; in occasione dei ban contro gli immigrati di Trump, mentre i tassisti scioperavano negli aeroporti d’America, Uber traccheggiava. I rivali di Lyft invece, molto più scaltri, hanno subito donato milioni alle cause anti-Casa Bianca, con la conseguenza che molta società civile americana ha immediatamente cancellato Uber per installare la app rivale. Insomma a un certo punto Kalanick è diventato un ostacolo per la sua stessa compagnia, andava messo da parte in vista di una quotazione di Borsa dell’azienda, che non va per niente bene. Tanto che qualcuno sostiene perfino che tutte le varie notizie sul sex-gate sarebbero messe in giro ad arte, mentre il tema vero è che la compagnia di San Francisco non ha mai fatto un dollaro di utile, è uscita da mercati fondamentali come la Cina, è stata battuta dai tribunali in Europa. Ma forse è troppo, è davvero House of Cars. Intanto, come se non bastasse, al povero Kalanick è anche morta la mamma, qualche settimana fa, in un incidente nautico. Gli è servito come pretesto per ritirarsi.