Google, cronaca di una multa annunciata
Che in Europa il vento fosse cambiato per la società e per l’antitrust europeo era evidente sin dall’insediamento di Margrethe Vestager al timone della direzione generale per la Concorrenza
La decisione con cui la Commissione Europea ha chiuso l’istruttoria sul caso Google Shopping – condannando la capogruppo Alphabet a scucire 2,4 miliardi di euro e, soprattutto, a ripensare il modo in cui il motore di ricerca propone agli utenti le inserzioni che ne rimpinguano il conto economico – stupisce ma non sorprende. Una contraddizione solo in apparenza, se ammettiamo che l’entità della colossale sanzione – la più consistente mai imposta da Bruxelles a una singola azienda – sia solo la beffa che s’assomma al danno di dover adulterare un modello industriale di straordinario successo. Che il vento fosse cambiato, invece, per il dossier Google e per l’antitrust europeo tout court, era stato evidente sin dall’insediamento di Margrethe Vestager al timone della direzione generale per la Concorrenza.
Ai modi più accomodanti, ma non certo arrendevoli, di Joaquín Almunia – che aveva indotto i dirigenti di Mountain View a presentare tre pacchetti d’impegni per conciliare la controversia accogliendo, quasi integralmente, i rilievi del regolatore – era subentrata la cazzimma dell’ex ministro danese, da subito incline a fare del caso (meglio: dei casi) Google la battaglia più memorabile della propria carriera. Sin dai tempi di Mario Monti, del resto, il ruolo di commissario alla Concorrenza s’era affermato come uno dei più riconoscibili dell’intero panorama comunitario: in parte perché tributario di competenze più antiche e più direttamente identificabili con la missione delle istituzioni europee; in parte perché, attrezzato con poteri utilizzabili pressoché senza alcun vincolo, è quello che consente di esercitare con maggior agio la preferenza per l’azione che contraddistingue tutti i politici (e i loro sudditi).
Rispetto ai potenziali abusi, infatti, l’antitrust europeo cumula le funzioni d’inquisitore, accusatore e giudice di prima istanza; la responsabilità ultima dei procedimenti spetta a un profilo squisitamente politico, senza alcuna garanzia d’indipendenza; ed emette verdetti immediatamente esecutivi, anche nel caso in cui i destinatarî decidano di ricorrere, in seconda battuta, al vaglio della Corte di Giustizia: sicché, l’assenza di un controllo preliminare e lo iato tra l’entrata in vigore di un provvedimento e la sua eventuale sconfessione creano un ambiente ideale per l’approvazione d’interventi che accrescono il profilo pubblico del dominus, a prescindere dalla loro effettiva fondatezza. Tale architettura istituzionale, in altre parole, incentiva un utilizzo arbitrario dei poteri regolamentari e sanzionatorî, in un ambito in cui già l’elaborazione legislativa ricorre per necessità a formule estremamente generiche, mentre la concreta identificazione delle condotte illegittime è demandata alla prassi.
Così si spiega che, senza alcuna giustificazione plausibile, un banale avvicendamento al vertice abbia trasformato pratiche che gli uffici preposti avevano ritenuto risolvibili attraverso l’assunzione d’impegni vincolanti in pratiche meritevoli di rimedî draconiani. Allo stesso modo, si comprende come una multa che, sino a pochi minuti dall’annuncio, gli osservatori unanimi avevano stimato in un miliardo sia, poi, lievitata del 150 per cento. O ancora, abbandonando per un istante le disavventure di Google, è questa stessa cornice che permette al commissario Vestager d’intestarsi prerogative fiscali non previste dai trattati, incrinando la sovranità tributaria di alcuni paesi membri e il legittimo affidamento delle impresi che li hanno scelti come base operativa. E, naturalmente, l’arbitrio può manifestarsi anche nell’astensione pilatesca da prese di posizione necessarie, come dimostra il recentissimo avallo della Commissione al sussidio da 5 miliardi con cui il governo italiano ha ricompensato Intesa Sanpaolo per l’eroismo con cui ha accettato in regalo due banche ripulite dalle sofferenze.
Ha ancora senso, dunque, parlare di “diritto” della concorrenza come di una disciplina organica, sistematica, prevedibile e non come un paravento per uno sregolato rigurgito di politica industriale? Sembra potersi richiamare qui, più ancora che in riferimento ad altri ambiti giuridici, il noto adagio di Kirchmann, secondo il quale basta “un tratto di penna del legislatore e intere biblioteche vanno al macero” – con la differenza che, in questo caso, non parliamo neppure di un’assemblea eletta, ma di un uomo (o di una donna) nominati dall’alto, se mi è concesso un abbaglio di grillismo, ma con l’analogo risultato di travolgere la stabilità del contesto normativo, precondizione irrinunciabile per investimenti a lungo termine. Ricordatevene, la prossima volta che sentirete invocare la necessità di promuovere l’innovazione in Europa.