Ecco il programma di Google per influenzare l'opinione pubblica

Eugenio Cau

Il Wall Street Journal pubblica un'inchiesta sulle attività di lobby di Mountain View: accademici finanziati per pubblicare ricerche su temi cari al motore di ricerca più grande al mondo. Che però è in buona compagnia

“Don’t be evil”, era il vecchio motto di Google, non essere malvagio. Il compito sembra improbo, ma è più lieve se la comunità accademica americana è dalla tua parte – magari dopo qualche piccolo contributo economico. Secondo il Wall Street Journal, che ieri ha pubblicato un’inchiesta informatissima, il gigante tecnologico di Mountain View ha attivo da quasi dieci anni un programma per “imbrigliare il potere intellettuale dei ricercatori universitari al fine di influenzare l’opinione pubblica e la politica”. Il programma prevede contributi economici rilevanti (tra i 5 mila e i 400 mila dollari: sono rilevanti per gli studiosi, per Google sono noccioline) per favorire la realizzazione di paper su temi cari a Mountain View, oppure per invogliare gli studiosi ad affrontare i temi medesimi. Non ci sono diktat espliciti. Google non dice ai professori cosa scrivere, ma contribuisce economicamente quando, per così dire, vede del potenziale nel loro lavoro.

 

Un professore di Legge della University of Illinois ha detto al Wall Street Journal di aver ricevuto da Google 18 mila dollari per un paper sul copyright. Il professore dice che stava lavorando allo studio prima di entrare in contatto con Google, e che Google gli ha detto che il contributo non lo vincolava in alcun modo: con i soldi “ci puoi anche aprire un negozio di ciambelle”, hanno detto. Ma hanno aggiunto: “Ma dopo non ti daremo più altri soldi”. Nel paper, il professore non ha reso noti i soldi ricevuti.


Secondo il Wsj, Google ha finanziato più di 100 studi accademici direttamente, più altri 100 attraverso think tank e istituzioni collegate. Mountain View ha pagato professori per esaltare l’uso che l’azienda fa dei dati personali dei suoi utenti; per difenderla dalle accuse di abuso di posizione dominante; per negare presunte pratiche di concorrenza sleale; per prendere le parti di Google in dispute pubbliche, per esempio quella con gli editori di giornali, alla quale partecipò anche il Wsj. 

 

Questi paper, poi, sono usati per fare intensa attività di lobby. Gli uomini di Google a Washington compilano liste annuali con i paper più rilevanti da presentare ai legislatori, e spesso Mountain View paga agli studiosi le spese di viaggio e alloggio a Washington per consentire loro di parlare con i politici. In America questa attività di lobby è perfetta, mentre in Europa le cose, è risaputo, vanno peggio, viste le multe multimiliardarie degli ultimi mesi.

 

L’inchiesta, ovviamente, dovrebbe sollevare dubbi di imparzialità, ma per fortuna interviene il mercato a sistemare le cose. Il primo a denunciare le pratiche monetarie di Google è stato il gruppo Campaign for Accountability, il quale, tuttavia, riceve donazioni da Oracle, acerrimo nemico di Google, e da altri rivali tech. Altre grandi compagnie tecnologiche, inoltre, non sono affatto timide quando c’è da finanziare la ricerca. Sempre secondo il Wall Street Journal, Microsoft, Qualcomm, Verizon e At&T hanno tutte finanziato paper a loro favore. Insomma, dove fallisce la regolamentazione delle attività lobbistiche arriva il mercato. Ognuno ha il suo prof da pagare, e l’equanimità del legislatore è garantita.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.