Lezione di iPhone
Gli smartphone hanno cambiato la comunicazione, è il momento di insegnarlo a scuola
Chi l’avrebbe detto, dieci anni fa, quando fu presentato il primo smartphone, che avremmo scritto così tanto con i soli pollici, che anche le persone più seriose avrebbero spesso comunicato con faccine allegre e tristi – quando non con cuoricini, bacini, lacrime e linguacce – e che ci saremmo abituati a essere spesso immersi in una duplice attenzione a ciò che avviene intorno a noi e al magico schermo del telefono? Sì, gli smartphone hanno cambiato la nostra percezione del mondo, come già aveva fatto la televisione e prima ancora la radio. Ovviamente non sono gli smartphone la rivoluzione ma il sistema informatico che regge la rete, l’unico vero cambiamento epocale in corso. Tuttavia, il senso estetico di Steve Jobs ci ha introdotto alla versione portatile della rete alla quale la maggior parte delle persone d’occidente sono ormai connesse. Inutile dire che ciò abbia avuto infiniti riflessi, anche sulla percezione della politica.
Con gli smartphone siamo entrati nell’era iconica, di cui la vittoria elettorale di Trump nel 2016 è stata la definitiva consacrazione. C’era una volta il politico da vendere in televisione come un prodotto, l’era del nome del capo-partito dentro il logo, delle faccione sui manifesti e delle pubblicità con musichetta soave. Era l’epoca indicale. Ancora più una volta, c’erano i lunghi discorsi in piazza o alla radio, l’epoca della politica dei simboli. Non che tutto questo sia sparito completamente, ma la comunicazione politica dal 2007 è cambiata. Il web 2.0 a cui gli smartphone accedono ci fa rispondere ai politici, firmare petizioni, vedere istante per istante le discussioni, esprimere empatie, simpatie e antipatie in pochi secondi. Obama prima e Trump poi hanno saputo usare questi strumenti con grande successo, battendo – prima l’uno e poi l’altro – il vecchio sistema politico centrato su programmi, gerarchie e raccolte fondi di partito. Certo, ci sono riusciti anche grazie a poteri economici che hanno deciso di sostenerli, ma in altre epoche l’esito sarebbe stato diverso. Hanno comunicato direttamente al loro pubblico umori e pensieri, più o meno costruiti, dando l’impressione di una grande sincerità, di una vicinanza immediata ai loro elettori e ai loro sentimenti, di esserne in qualche modo diretti portavoce, come in Italia hanno rivendicato non a caso i rappresentanti del M5s. Gli smartphone hanno permesso movimentismo e disintermediazione.
L’altro lato della medaglia è l’inizio della grande disillusione, denunciata da molti, a cominciare da Marc Zuckerberg e, con più serietà, dal co-fondatore di Twitter Evan Williams. A Silicon Valley, patria dei cambiamenti, pensavano che in fondo tutto ciò potesse avere solo effetti positivi: dialogo, informazione, condivisione, superamento cosmopolita di tabù, appartenenze e autoritarismi. E invece abbiamo scoperto che gli smartphone hanno creato contraccolpi inaspettati. Tendiamo a un’estenuante omofilia, a cercare chi la pensa come noi e ci dà ragione (filter bubble), a sentire solo i nostri stessi pensieri (echo chamber), a vivere innervositi in “sfere pubbliche irritative” come dice il sociologo Giovanni Boccia Artieri. In effetti, la legge dell’era iconica della politica è quella di esprimere immediatamente una reazione, con poco tempo per capire e valutare. Non solo, contrariamente a quanto spesso si afferma, questa simbiosi con gli smartphone ci ha catapultati non in una società liquida di molteplici relazioni ma in un’epoca di cristallizzazione polarizzata, come ha giustamente notato il filosofo Maurizio Ferraris. Del resto, non è difficile capire il perché: la mia reazione contro il politico di turno viene vista da molti, rimane registrata per sempre, invoca altre reazioni uguali e contrarie. Insomma, un post ci iscrive in un club di tifosi da cui è molto difficile uscire. La politica polarizzata non è l’effetto dello spirito dei tempi ma della velocità dei tasti.
Veri gesti conoscitivi
Tutto negativo dunque? Affatto. Gli smartphone ci permettono passi meravigliosi e veri gesti conoscitivi, dalla chirurgia a distanza alla fruizione unica di beni culturali altrimenti ignoti, e anche in politica permettono l’emergere di istanze e di parti della popolazione altrimenti dimenticate (i forgotten che hanno portato Trump alla Casa Bianca). Come per tutte le grandi rivoluzioni di percezione della realtà, quelle del passaggio dall’orale allo scritto, dalla scrittura alla stampa, dalla stampa ai mezzi di comunicazione di massa, non si tratta di idolatrare i cambiamenti né di temerli. Si tratta piuttosto di essere educati a capire potenzialità e rischi di mezzi nuovi. Si tratta di un’educazione alla conoscenza, e non all’etica, della comunicazione. Il mezzo cambia il messaggio e, dunque, occorre conoscerlo bene. Già nel caso della radio e della televisione non abbiamo voluto inserirne l’insegnamento nelle scuole, salvo poi subirne le prevedibili conseguenze e lamentarci, soprattutto in politica. Siamo in tempo per evitare di compiere lo stesso errore, risparmiandoci moralismi e catastrofismi.
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