Talent show 4.0
Davide Dattoli, 27 anni, ha fondato la più vasta rete di coworking europea. Gira il mondo, è cresciuto a Brescia. Un Bazoli in sedicesimo
Se fossimo in Silicon Valley sarebbe nato in un garage, ma siccome siamo pur sempre in Italia è venuto su in un ristorante. A Brescia, poi, invece che Palo Alto. Ventisette anni, Davide Dattoli è il fondatore o meglio founder di Talent Garden, la più vasta rete di coworking europea, dove per coworking si intendono quelle moderne botteghe rinascimentali dove c’è l’equivalente dell’artigiano, del fabbro, dello scalpellino, tutto però naturalmente digitale e virtuale, e ci si incuba e ci si contamina tra startup e professionisti, sognando di “scalare” e diventare il nuovo Facebook.
Autobiografia della Regione, se non della Nazione, i suoi genitori avevano “una serie di ristoranti e locali a Brescia”, dice al Foglio, ed è un understatement perché i Dattoli officiavano al Castello Malvezzi, fondamentale castello delle cerimonie ove la Brescia-bene andava a festeggiare i matrimoni (piatto clou anni Ottanta; il risotto alle fragole); il padre imprenditore si era fatto da solo ed è però mancato quando Dattoli ha solo otto anni, ma aveva fatto in tempo a trasferirsi in campagna, a Prevalle, luogo non proprio ameno nella Valtenesi bresciana, oggi famoso per il sindaco che mette i cartelli “no gender” sui padiglioni luminosi. Un altro locale di famiglia era il bar della Stampa in piazza Loggia, la piazza della strage, ma anche dei gioiellieri, bar sofisticato con pianoforte a coda, dove le sciure vanno a prendere il tè il sabato pomeriggio (“quando è morto mio padre, l’ha preso in mano mia mamma, che prima si occupava di fiere, e non ne sapeva niente di bar, e gli ha dato un tocco un po’ etnico, c’è stata un’insurrezione a Brescia, la deputata di destra che era stata sua compagna di scuola ha detto in un’intervista al Giornale di Brescia che aveva trasformato il salotto buono della città in un covo di islamici”). Infine il ristorante Carlomagno, ancora della famiglia, insieme “a un socio-chef e a Iginio Massari”; per chi è esente dalla malattia dei masterchef, Massari è l’überpasticcere televisivo che da via Veneto ha dato l’assalto all’etere coi suoi panettoni (ma via Veneto di Brescia, non proprio quella da Dolce Vita romana).
“Ogni tanto lo incontro su qualche palco di Wired a parlare di innovazione, ci guardiamo e diciamo: ma che facciamo qui, la vita è strana” dice ora Dattoli che anche lui è una star, star non della pasticceria né della tv, ma del digitale. Sul suo impero dei coworking non tramonta mai il sole, sono diciotto in sei paesi europei, radunano tremilacinquecento persone che trafficano a innovare tra le professioni del presente o del futuro, astronavi ragazzine planate su quartieri sgarrupati. Per dire, eccolo qui nel suo quartier generale di Milano, via Calabiana, avamposto di gentrificazione vicino allo scalo di corso Lodi. “Siamo arrivati praticamente insieme alla Fondazione Prada” dice Dattoli. “La nostra filosofia è di non andare nei centri storici né nelle periferie bensì di stare in quel primo cerchio intorno alle città in cui mettere insieme centinaia di persone di valore diventa un modo per cambiare la faccia di un quartiere, un po’ come qui a Milano”.
Questo posto fa un po’ impressione intanto perché è più bello dei vari coworking siliconvallici – a San Francisco, dove Dattoli va spesso, imperversa Wework, colosso da 200 centri e 20 miliardi di valore, ormai con tentacoli in ogni angolo d’America. Qui però c’è una piscina, ci sono le finestre, e poi l’atmosfera è di una Silicon Valley un po’ mediterranea, seppur milanese, tra i legni chiari degli arredi e le piante e il bar. Dentro, tra gli animaletti 3D di Fablab, le bici gialle della startup cinese Ofo, e poi addirittura una redazione giornalistica, quella degli Stati Generali di Jacopo Tondelli. “Tutte le grandi startup internazionali che arrivano in Italia passano da Talent Garden” dice Dattoli orgoglioso: “Da Uber a Deliveroo, a Mytaxi; entrano in Talent Garden perché trovano quel giusto ecosistema per crescere”, trovano insomma fornitori, clienti, possibili dipendenti, formazione, bar, e un ubi consistam a banda larga.
Nelle nostre esistenze liquide, dice, “le stime prevedono che i coworking costituiranno nei prossimi anni il 30 per cento degli spazi lavorativi nel mondo”. “Il tema vero però è che ognuno comincerà a specializzarsi. Il mondo del coworking diventerà come quello degli hotel, cioè puoi avere il cinque stelle ma anche la pensione della signora Maria. Noi non puntiamo ad avere tantissimi spazi, ma alla selezione, con un focus sul digitale”. Quindi se io vengo da voi e voglio fare l’architetto, o l’avvocato, non mi prendete? “No, dev’essere un progetto che ha il digitale al centro”.
Dattoli, che sarebbe potuto diventare un fighetto locale con Porsche a piazzale Arnaldo (il luogo della movida bresciana sotto la statua del famoso monaco eretico) ha deciso invece di colonizzare l’Europa con le sue cittadelle digitali, ma prima di scappare dalla provincia. Dopo il liceo è andato a fare l’università a Castellanza, la famosa Liuc dove nei Novanta aveva insegnato Antonio Di Pietro (“non lo sapevo, non l’ho mai visto”). “Più della metà degli studenti erano stranieri”, ed è iniziata la sua strada verso la globalizzazione. Ma intanto il suo romanzo di formazione aveva iniziato a diventare siliconvallico: passando dal fondamentale rito dell’abbandono scolastico che in Silicon Valley è l’equivalente della prima comunione a Brescia; dopo sei mesi lascia l’università, nelle soffitte del castello Malvezzi, mentre di sotto si preparano matrimoni abbienti, comincia a trafficare con Internet e soprattutto con Facebook, “diventiamo il primo ristorante d’Italia con menu su iPad, cominciamo a intuire il business della pubblicità su Facebook, dei social media, una cosa che oggi sembra normale ma all’epoca, era il 2009, non ci pensava nessuno”.
Mette su così una società, che si chiama Viral Farm, e si occupa proprio di contenuti online, social media e mobile, e intanto comincia a lavorare nelle strategie digitali per Condé Nast, la casa editrice di Vogue e Vanity Fair. Ma poi l’illuminazione arriva nel 2011 quando decide di aprire il primo Talent Garden (o, in breve, Tag). “Ho pensato: anche un territorio piccolo come Brescia è pieno di persone di talento: liberi professionisti, agenzie, startup. Che stanno tutte a chilometri di distanza. Allora, perché non metterle vicine, farle comunicare, ricreare quell’energia che si trova negli eventi tecnologici?”.
Parlare di tempi con Dattoli fa uno strano effetto perché lo vedi e sembra un imprenditore di lungo corso, un quarantenne, però quando dici “prima di Facebook”, “prima dell’iPhone”, gli chiedi che faceva dieci anni fa, lui risponde timidamente “eh, ero al liceo”, e ti senti tu improvvisamente vecchissimo.
“Sono io che sono un giovane-vecchio” dice lui schermendosi, e in effetti la prossemica e i modi ricordano un filone molto bresciano-lombardo, e quando dice “sai, questo Talent Garden di Milano prima era una tipografia, qui è stata stampata la prima copia dei ‘Promessi Sposi’”, si apre tutto un mondo, tipo Madeleine della Bovisa, e viene in mente Mino Martinazzoli, il gran politico bresciano democristiano che di Manzoni era fan e studioso. Ci viene il guizzo di provocare Dattoli, anche perché adesso qualcosa da grande dovrà fare. Potrebbe fare la politica.
Il fatto è che i suoi coworking ormai non attirano solo nerd nostrani e forestieri. Negli ultimi mesi si sono materializzati nei suoi centri, a vario titolo, Luigi Di Maio e il presidente Mattarella e Maria Elena Boschi; non vanno ad apprendere le tecniche delle stampante 3D ma a inaugurare, omaggiare, officiare. L’ultima è stata appunto la sottosegretaria Boschi, che a fine ottobre ha presenziato all’inserimento del gruppo nel “Google for Entrepreneurs”, un Bilderberg degli innovatori. Malignamente, ci sarebbe da pensare a un correttivo da Cencelli dopo la visita, che fece ancora più scalpore, di Luigi Di Maio a fine settembre.
Ma sono coincidenze, naturalmente, e Dattoli dà confidenza a tutti ma mai troppa, basta guardare la prossemica, anche questa molto democristiana: gambe incrociate accanto a Boschi, un po’ più rigido accanto a Di Maio che invece se lo abbraccia col Pomigliano touch; e però segue nota dattolica su Facebook: “Essendo Talent Garden un luogo di condivisione abbiamo ospitato i candidati delle comunali di Milano nelle ultime elezioni e continuiamo a creare occasioni di incontro informale tra i nostri abitanti e le istituzioni”. “Abbiamo già invitato tutti i rappresentanti politici e speriamo nei prossimi mesi di creare altre occasioni di incontro con altri candidati alla guida del governo”.
Ma il trionfo istituzionale è stato a giugno con Mattarella, e Marchionne, e John Elkann, e Michael Bloomberg e alla direttrice dell’Economist, per inaugurare l’ennesimo Talent Garden questa volta a Torino in collaborazione con la fondazione Agnelli (alla presenza del capo dello stato l’uniforme dattolica-siliconvallica era temprata da un blazer, contro la felpa di Harvard invece indossata con Di Maio).
Con una rete così, sicuro che non vuoi fare la politica? Giammai, per carità. Mai fatta? “Zero politica” dice perentorio-terrorizzato. E’ sicuro? Dà la risposta giusta. “Credo che oggi fare impresa sia un bel modo di fare politica”. “Aiutare chi vuole mettere su una impresa digitale è una cosa che crea un impatto, che crea un nuovo modo di pensare”. E ancora: “Siamo solo tremilacinquecento persone sparse in sei paesi europei, ma possiamo fare molto di più di quello che non fa la politica, frenata da tutti i blocchi e i sottoblocchi, la politica non decide a livello locale, non decide a livello nazionale. L’unico modo per avere un impatto è decidere a livello europeo. La politica questa cosa non la sta facendo. La politica dev’essere europea”. E’ un discorso politico, evviva! Niente, non raccoglie. Qualcuno dice che tifa Pd, lui nasce cattolico, adesso chissà, “prima le scuole dalle scuole canossiane, poi dai salesiani”. Come Berlusconi! Silenzio.
Eppure se Dattoli scendesse in campo coi suoi tremilacinquecento associati o followers o adepti, sarebbe una Publitalia 3 o 4.0, ci entusiasmiamo. Lui non ha il sole in tasca, ma ha l’algoritmo. Come un altro startupparo più famoso che continua a dire che non si candida, solo un po’ più grosso, Mark Zuckerberg, quest’estate come vacanze si è fatto “3.800 chilometri on the road, 15 diversi stati e decine di città a scoprire l’America più profonda, quella dove Trump ha vinto e lontano dalle solite New York o San Francisco” (solite perché a San Francisco ci va di frequente, come a Tel Aviv, la sua città preferita, in un giro delle sette chiese delle startup globali).
Dal global al local, vecchio e giovane, colpisce la calata bresciana accanto a espressioni siliconvalliche, “billions” per dire miliardi, “cappa” per dire migliaia, “delivery” e “skills” come se piovesse. E poi “ciao”, modo bresciano per dire sì, vabbè. Per i compleanni e gli anniversari trascina l’incolpevole fidanzata “a camminare”, dunque scarpinate in montagna, e non a Cortina ma nei monti pauperistici bresciani “sul Monte Orsa”, daje a ride’. “Ventisette anni, ma ne sento 65”, dice, sembra un Nanni Bazoli in sedicesimo. A suo agio con tutti, tono basso da sobrietà lombarda, mangia poco, va a dormire presto: “Cerco di tenermi in forma, poi essendo nato in un ristorante ho perso ogni gusto per la cucina, soprattutto italiana. Mangio solo etnico, che è anche più sano”. Naturalmente non fuma, nuota e fa palestra, è tutto fisicato dietro le t-shirt dell’uniforme siliconvallica. Unica concessione un po’ epicurea, dorme tanto. Sei anche tu seguace della nuova moda americana? “No, è che sennò non sto in piedi”, nelle settimane che lo portano nei suoi giri transatlantici (Roma con molto juicio, come i lombardi sospetta della capitale, non va alle feste), quando si materializza a Londra o in altre capitali scrive su Facebook “chi c’è in città?” e subito un network di ragazzini-ma-non-tanto organizza delle cene in suo onore.
Su Facebook però si esprime pure su temi squisitamente politici. Contro il salvataggio delle banche: “abbiamo deciso di destinare 17 miliardi per salvare le due banche venete e i loro 10.000 dipendenti. Una scelta che sembra giusta e responsabile. Ma non abbiamo capito che purtroppo tutte le banche del mondo nei prossimi anni taglieranno le loro filiali, chi prima o chi dopo, e quei posti già oggi non esistono più. Abbiamo buttato dalla finestra 17 miliardi, praticamente la crescita del nostro pil annuale, per provare a ritardare l'inevitabile che con questo o altri aiuti comunque avverrà”. Sulla scuola ci dice: “Obama ha investito tantissimo nella formazione a bootcamp, cioè i corsi di tre-sei mesi, ed è una cosa che abbiamo inventato noi, cioè le scuole di formazione professionale che sono state la chiave del successo del manifatturiero in Italia; noi però lo stiamo perdendo, leggo sui giornali che si vuole fermare l’alternanza scuola-lavoro; ma siamo tutti pazzi?”. E ancora: “C’è sempre questa paura in Italia di mettere le persone a contatto col mondo del lavoro. Ti ci tengono il più possibile lontano, e poi un giorno tu dovresti sapere che cosa vuoi fare da grande, anche se non hai mai sperimentato niente. Ma io ho fatto tanti lavoretti, in cucina, in sala, ho fatto il giardiniere, cose totalmente diverse, ed è così che ho capito cosa volevo fare”. E da grande cosa farai? “Vogliamo espanderci in Europa”, ripete. Di più non dice: bisognerà aspettare qualche anno per capire cosa farà, quando diventerà finalmente dattolico adulto.