I consigli dell'esperta di cybersecurity del Nyt per disinnescare le balle
Ogni democrazia occidentale in cui migliaia di persone hanno accesso a Internet e alla libertà d’espressione è vulnerabile alla disinformazione
Milano. Il disegno di legge del Partito Democratico “per contrastare la diffusione su Internet di contenuti illeciti” non è ancora stato depositato. Il dibattito è però già feroce, benché si tratti di una strada discussa altrove in Europa e intrapresa in Germania. Non è un caso che la bozza sia stata definita “alla tedesca”. La Germania, paese in cui le recenti elezioni sono sopravvissute indenni al contagio delle fake news, è un modello cui fare riferimento. Le regolamentazioni, però, da sole non bastano, spiega al Foglio la giornalista americana Sheera Frenkel che, dopo anni passati a seguire conflitti in medio oriente, è ora sul fronte di un’altra guerra, come cybersecurity correspondent del New York Times. I tedeschi “hanno sfruttato leggi già esistenti contro l’incitamento all’odio in modo da fare pressioni sui social media per rimuovere le fake news. Nel paese esiste inoltre educazione sulle false notizie: il pubblico è in grado di intercettarle e di riconoscere i media autentici”. Sia la stampa locale sia il governo, ricorda Frenkel, hanno fatto di tutto per dire ai cittadini: “Ehi, se vedete qualcosa online che vi sembra strano, qualcosa che è così folle da farvi credere che possa non essere vero, ecco: forse non è vero”. L’unico modello che può funzionare è quello in cui i cittadini hanno a disposizione media con alti standard di credibilità: “I paesi che non hanno un panorama mediatico affermato di cui il pubblico si fida finiscono più facilmente in preda alle fake news. Nelle nazioni in cui i governi non fanno uno sforzo e anzi continuano ad attaccare i media e a metterne in discussione la credibilità, le fake news circolano con maggiore intensità”.
Per capire come proliferano le fake news, Frenkel ha visitato anche diverse regioni dell’Asia. Una delle nazioni in cui le false notizie hanno fatto maggior danno è oggi al centro delle cronache per la visita di Papa Francesco. Il Pontefice è volato in Myanmar con l’esplicita richiesta del governo locale di non pronunciare la parola “Rohingya”, minoranza musulmana perseguitata. In Myanmar, spiega Frenkel, “molta disinformazione è scaturita dall’ignoranza: le persone hanno letto storie sui musulmani su piattaforme come Facebook senza avere una fonte di informazione di cui si fidavano che mostrasse loro le falsità. Hanno creduto a ogni sorta di racconto ingannevole, che ha portato alla crescita dell’islamofobia”.
Non è necessario andare fino al Myanmar o in nazioni in cui lo stato di diritto è ancora imperfetto. Ogni democrazia occidentale in cui migliaia di persone hanno accesso a Internet e alla libertà d’espressione è vulnerabile alla disinformazione. Accade con la questione dei vaccini negli Stati Uniti prima ancora che in Italia. “Molti credono che i vaccini siano causa di malattie mentali, basandosi su studi di decenni fa, mai provati. Ora, la comunità scientifica dice che non è vero, che i vaccini sono importanti, ma c’è chi posta articoli che sembrano veri, li condivide su gruppi Facebook che ospitano altre teorie del complotto – persone che credono agli alieni, o che la terra è piatta – e raggiungono un gruppo di persone già inclini a credere alle cospirazioni. Se credo a un complotto posso facilmente seguirne un altro. Così sembra che questi utenti abbiano milioni di follower”.
Educare allo scetticismo resta il miglior antidoto alle balle. E ad applicarlo, è il consiglio della reporter del New York Times, dovrebbero essere per primi i giornalisti. “Controlla ogni cosa. Sei un giornalista, se tuitti qualcosa, le persone penseranno che quel che dici ha un valore. Se tuitti un articolo leggilo, cerca di capire se quel che dice è vero sulla base della tua competenza. Sii sicuro, e solo allora decidi se condividerlo online: viviamo in un momento in cui tante persone condividono qualsiasi informazione non verificata, che potrebbe anche essere inventata. Cerchiamo almeno d’essere certi di non contribuire a questo circolo vizioso”.