Elogio del futuro
Lo smartphone ci ha cambiato la vita ma sta prendendo corpo una folle corrente di pensiero che lo identifica come il simbolo dei mali del mondo. Panegirico sfrontato del cellulare, icona di un mondo possibile dove l’ottimismo asfalta il disfattismo a colpi di innovazione e merito
La terra sta degenerando; disonestà e corruzione abbondano; i figli non rispettano i genitori; ogni uomo vuole scrivere un libro ed è perciò evidente che la fine del mondo si approssima a grandi passi”. Sembra Aldo Cazzullo, ma si tratta di un’iscrizione assira del 2800 avanti Cristo. Il rimpianto di un’età dell’oro mai esistita è un genere letterario vecchio quanto il mondo, che ogni volta si rinnova trovando un nuovo simbolo del male e del declino. Negli ultimi mesi, questo filone si è arricchito di alcuni interventi che hanno individuato nello smartphone l’oggetto satanico. L’autore più esplicito è proprio Cazzullo, che nel suo dialogo coi figli Rossana e Francesco (“Metti via quel cellulare”, Mondadori, pp. 195, euro 14,45), cerca di spiegare perché il telefonino sta rapidamente divorando la nostra organizzazione sociale. Se la prende ora con la distruzione dei rapporti umani, ora con la presunta dittatura dei giganti della Silicon Valley (le repliche dei figli sono piene di buonsenso, però). Un altro editorialista del quotidiano di Via Solferino, Antonio Polito, dedica al cellulare un capitolo del suo “Riprendiamoci i nostri figli” (Marsilio, pp. 173, euro 16,66), seppure con toni più paternalisti che apocalittici. Polito dice, non senza ragioni, che il possesso del telefonino segna il passaggio alla maturità dei nostri figli: e, contestualmente, ne anticipa ed espande i confini. Ma la polemica contro lo smartphone – inteso come cavallo di Troia della digitalizzazione – non è solo italiana. La solitudine e la disgregazione indotte dalla realtà virtuale sono al centro della prosa di grandi scrittori americani, come Jonathan Safran Foer e Jonathan Franzen.
Illustrazione di Vincino
Siamo davvero alla fine del mondo per come lo conosciamo, per parafrasare i Rem (che lo cantavano ben prima di avere uno smartphone)? In un certo senso sì. Ma, come sempre, vige una specie di legge della conservazione: il fenomeno a cui stiamo assistendo non è il Nulla di Michael Ende, che divora tutto e si lascia il vuoto alle spalle. E’ un processo continuo di cambiamento ed evoluzione: la distruzione creatrice di Joseph Schumpeter.
Un tempo serviva essenzialmente per parlarsi. Adesso è uno strumento utile a fare tutto e indispensabile a fare molto. C’entrano gli effetti di rete, che aumentano l’utilità di un bene quanto più esso è diffuso. C’entrano l’estetica e il marketing.
Tra tutte le tecnologie che hanno cambiato la nostra vita, lo smartphone è indubbiamente quella più immediata e pervasiva. Anzitutto per un fatto di numeri: nel 1981 c’erano al mondo 23 mila abbonamenti a servizi di telefonia cellulare. Nel 2016, 7,2 miliardi (su poco meno di 7,5 miliardi di esseri umani): in Italia abbiamo 142 sim ogni 100 persone. C’è un aspetto ancora più sorprendente: mentre aumentava la diffusione dei telefonini, è cambiato pure l’oggetto che abbiamo in tasca e l’utilizzo che ne facciamo. Un tempo, il cellulare serviva essenzialmente per parlarsi senza essere legati a un cavo. Adesso, è uno strumento utile a fare tutto e indispensabile a fare molto. Con lo smartphone scambiamo messaggi e contenuti multimediali, scattiamo fotografie, controlliamo il conto in banca, prenotiamo il taxi o il pranzo a domicilio, cazzeggiamo e giochiamo, pianifichiamo viaggi e soggiorni, cerchiamo ogni tipo di informazione che sia disponibile online, acquistiamo beni e consumiamo servizi, condividiamo emozioni e pensieri, seguiamo chi ci pare e siamo seguiti da chi ci trova interessanti. Come ha scritto Alberto Brambilla, abbiamo la globalizzazione in tasca (Il Foglio, 17 luglio 2017).
Questo boom non è spiegabile in modo semplice. C’entra la coevoluzione tra la potenza di calcolo dei “portatili” (come si chiamavano una volta) e la connettività diffusa. C’entra lo sviluppo di applicazioni che rendono la vita sempre più interessante e consentono nuove esperienze (la vita è bella perché è varia). C’entrano gli effetti di rete, che aumentano l’utilità di un bene quanto più esso è diffuso. C’entra l’interoperabilità dei protocolli. C’entrano l’estetica e il marketing. C’entrano tutte queste cose e molte altre, ma al fondo conta un risultato basilare: il telefonino apre una straordinaria finestra sul mondo perché semplifica le transazioni, abbattendone i costi. In sintesi, il cellulare è diventato così ubiquo e importante perché ci consente di scambiare (informazioni, servizi, utilità) in modo più intuitivo, rapido, efficace e sicuro. Il telefonino crea dei mercati e degli spazi di relazione umana.
La rete è piena di vignette sulla scena più famosa della storia del cinema: l’audiocassetta che – rubando la battuta a Darth Vader – dice “I am your father” al lettore Mp3, o il floppy disk alla chiavetta usb. E’ nella natura delle cose che, a un certo punto, il figlio uccida il padre. La peculiarità del cellulare è che la lista dei prodotti a cui esso deve la paternità, e che ha contribuito a seppellire, è lunga quanto l’enciclopedia (enciclopedia inclusa, beninteso). Il telefonino è il simbolo della modernità perché è il Santo Graal della disintermediazione. Accorciando le catene produttive, moltiplicando e rendendo immediato l’accesso all’informazione, ridefinendo i confini delle relazioni personali lo smartphone svolge una funzione cruciale di cui l’economista Michael Munger parla nel saggio introduttivo all’Indice delle liberalizzazioni 2017: chi lo acquista si assicura una riduzione dei costi di transazione. Se l’uomo è un animale che scambia, il telefonino è l’invenzione più umana che ci sia.
Queste considerazioni spingono da un lato a magnificarlo; dall’altro a delimitarne l’importanza. Magnificarlo perché gran parte delle innovazioni che stiamo vivendo – e che tipicamente rendono la nostra vita migliore, altrimenti non le avremmo adottate tanto rapidamente – trovano nello smartphone il proprio veicolo.
Tuttavia, il cellulare è, per così dire, solo il terminale di un cambiamento più vasto, che riguarda i prodotti che consumiamo, i processi produttivi e l’organizzazione industriale sottostanti, e l’espansione dell’ “utilizzo” a scapito del “possesso” (che è un altro effetto dei minori costi di transazione). Perfino la natura delle imprese sta mutando in conseguenza di tutto ciò (Franco Debenedetti, “Dominare il futuro digitale”, Il Foglio, 2 novembre 2017).
Il telefonino è dunque la manifestazione più ovvia di quel processo di digitalizzazione della società che tutti invocano come volano di produttività e sostenibilità, e che contestualmente tutti rifiutano nel momento in cui mette in discussione lo status quo. E’ il ponte tra “vorrei ma non posso” e “posso quindi ho paura”. A differenza del mondo fisico, nel mondo digitale non esistono ostacoli o distanze: esistono piattaforme grazie alle quali chi ha qualcosa da offrire può facilmente incontrare chi ha un desiderio (o un bisogno) da soddisfare. L’immensità può far venire la vertigine: ma alzi la mano chi, alla fine, non è disposto a sfidarla per scoprire cosa c’è dall’altra parte. Il telefonino è la chiave magica con la quale ciascuno – ricchi e poveri, belli e brutti, intelligenti e fessacchiotti, the West and the Rest – può raggiungere la modernità.
Il cellulare ci rimbecillisce?
E tante grazie dai social network. Senza il telefonino intelligente, non sarebbero quello che sono (e nemmeno Google). La libera scelta, e l’utilità, di mettere i propri dati a disposizione del cellulare
Dice: sarà pure la chiave per la modernità, ma è una modernità di rimbecilliti. Lo argomenta diffusamente Cazzullo nel suo libro. Lo ha scolpito Tomaso Montanari in un tweet, che non ce l’aveva con gli smartphone ma avrebbe potuto: “Temo che gli archeologi del futuro ci giudicheranno una società di deficienti governata da affaristi”. Non a caso, viste le sue innumerevoli applicazioni e la velocità con cui ci consente di informarci e scambiare notizie, il cellulare è anche il terreno di coltura nel quale sono germinati i social network e la pretesa che tutti abbiano diritto di avere opinioni e addirittura esternarle (invero, tutto cominciò molto prima di internet, e iniziò precisamente quando anche l’operaio volle il figlio dottore).
Per rispondere, si può fare appello ai vecchi libri. Per esempio, la “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht (un’opera composta negli anni bui della Guerra che, per inciso, si può liberamente scaricare in rete e leggere sullo smartphone). “A volte penso che mi lascerei rinchiudere in una prigione dieci tese sotterra – esclama Galileo – dove non penetrasse un filo di luce, purché in cambio potessi scoprire di che cosa la luce è fatta. E il peggio è che, tutto quello che scopro, devo gridarlo intorno: come un amante, come un ubriaco, come un traditore”. Non tutti sono Galileo, naturalmente. Ma neppure Galileo sarebbe stato Galileo se non avesse compiuto le sue osservazioni in una società che stava faticosamente accettando il principio che la verità, se esiste, è verità sperimentale; e dunque ammette come fatto basilare che la crescita umana e culturale deriva da un continuo processo di scoperta e revisione delle verità precedenti. Non c’è creazione, appunto, senza distruzione.
Perché la scienza oggi progredisce a un ritmo tanto più rapido rispetto ai tempi di Galileo? La risposta è contemporaneamente semplice e complessa: perché siamo consapevoli che esistono cose nuove da scoprire. La nostra è una società (relativamente) aperta e plurale: l’immenso patrimonio di conoscenza che internet mette a disposizione, e che lo smartphone consente di raggiungere, è il lievito più potente che ci sia mai stato. Semmai, il paradosso è un altro: proprio mentre la società si apre e spalanca nuove opportunità, la nostra cultura sta vivendo una sorta di contorsione passatista. Le sconfinate praterie di internet ci spaventano. Dunque reagiamo con scetticismo e timore, e cerchiamo protezione nel vecchio ordine sociale. Ne discute il premio Nobel per l’economia Edmund Phelps in un libro (“Mass Flourishing”, Princeton University Press, pp. 378, euro 14,29) e in un saggio (“The Dynamism of Nations: Toward a Theory of Indigenous Innovation”). Secondo Phelps, i valori fondanti della società aperta e moderna – il pluralismo, la competizione, il dinamismo – sono oggi vittima di un colpo di coda corporativo. La tensione verso il progresso arranca a fronte della domanda di sicurezza; la curiosità verso l’ignoto davanti alla ricerca di certezze. Così si spiega – in politica – il ritorno del nazionalismo e del protezionismo. E così si spiega – in economia – la riduzione del tasso di crescita della produttività.
Proprio mentre la società si apre e spalanca nuove opportunità, la nostra cultura sta vivendo una sorta di contorsione passatista. Le sconfinate praterie di internet ci mettono la vertigine. Dunque reagiamo con scetticismo e timore, e cerchiamo protezione nel vecchio ordine sociale.
Se do al mio cellulare, alle mie app, al mio sistema operativo una quantità di informazioni su di me è perché nel complesso questo mi consente di usufruire di una serie di comodità a cui, altrimenti, dovrei rinunciare. Non appaiono fondate le preoccupazioni per la fine dell’anonimato.
Paradosso nel paradosso: gli anticorpi vengono proprio da internet. Cioè dallo smartphone. La disponibilità di informazioni senza limiti e senza costi è un virus che ci contagia, ma è anche il vaccino che ci protegge. Lo confermano le prime indagini empiriche. Più dell’80 per cento dei navigatori che dichiarano di utilizzare i motori di ricerca online per informarsi, verificano le informazioni di cui entrano in possesso. Addirittura, gli utenti più attivi dei social network – contrariamente alla teoria delle “camere dell’eco” – generalmente si espongono a una maggiore pluralità di punti di vista. La rete sarà pure il postribolo degli antivax, ma è anche il megafono di Roberto Burioni.
Non c’è algoritmo che possa ingabbiare la curiosità umana e costringerla all’interno di una bolla. Semmai, è il costo dell’informazione a limitare la possibilità di ciascuno di farsi un’idea: costo non solo monetario, ma – ancora una volta – costo della transazione. Per cercare qualcosa, devo prima sapere che esiste, e poi capire dove cercarla. Google è la migliore risposta all’uno e all’altro problema. Ma Google non sarebbe Google (e, molto concretamente, Google non era Google) prima dell’avvento del telefonino intelligente.
Cellulare e strapotere della Silicon Valley
Ogni buona moneta ha il suo rovescio, e ogni Forza ha il suo lato oscuro. Lo smartphone – ci avvertono – è l’impalpabile guinzaglio elettronico attraverso cui consegniamo le nostre vite e i nostri dati ai colossi della Silicon Valley, che li useranno per “profilarci” e lucrare sulla nostra intimità. (Nota a margine: mentre scrivo mi collego a Facebook; l’annuncio sponsorizzato mi rimanda ad Amazon, che mi suggerisce una scopa elettrica, un asciugacapelli, un misuratore di pressione e una friggitrice: l’algoritmo ha ancora margini di miglioramento, diciamo). C’è del vero ma, nella misura in cui c’è, è grandemente esagerato. Al lato oscuro si può resistere.
La preoccupazione per la nostra privacy e la protezione dei nostri dati – che, inevitabilmente, diventano in parte accessibili nel momento in cui il telefonino è l’hub della nostra vita digitale – sarebbe infatti lodevole, se non prescindesse da un punto, in teoria, fermo: i miei dati sono miei. Ho quindi il diritto di farne quel che mi pare, incluso condividerli con chi mi pare, se mi pare. Se do al mio cellulare, alle mie app, al mio sistema operativo una quantità di informazioni su di me è perché nel complesso questo mi consente di usufruire di una serie di comodità a cui, altrimenti, dovrei rinunciare. La decisione di mettere i dati a disposizione del telefonino – e attraverso di esso dei giganti di Seattle o Mountain View o di altri posti dai nomi esotici – è una libera e consapevole scelta di ciascuno di noi, che in ogni caso può in ogni momento smettere di farlo, o limitare il livello di trasparenza.
Uno strumento potente e potenzialmente pericoloso, ma senza di esso l’informazione sarebbe sterile e tutti noi saremmo meno ricchi. Una e nuova opportunità di socializzazione, secondo canoni diversi da quelli del passato ma non meno dinamici. Da giocattolo per workaholic a fenomeno di massa
Né appaiono fondate le preoccupazioni per la fine dell’anonimato: l’anonimizzazione dei dati raccolti è figlia proprio della enorme mole di bit che ogni secondo vengono elaborati da server sparsi in tutto il mondo. L’analisi dei “Big Data” non è finalizzata a privare i singoli della loro riservatezza, ma a profilare comportamenti in modo da rendere l’offerta di servizi e l’advertising sempre più a misura di persona, trovando delle “regolarità” e delle caratteristiche che tuttavia rimangono sepolte in un oceano di informazioni a cui nessun singolo essere umano può accedere. E poi, piccola polemica tutta italiana, decidetevi: perché volete farci vivere in un paese dove ciascuna casa deve essere di cristallo, e le uniche pareti a dover restare opache sono quelle che proprio noi vorremmo rendere trasparenti?
Naturalmente, nella vorticosa circolazione delle informazioni personali – anche quelle apparentemente più innocue – possono esserci dei rischi. Siamo di fronte a un fenomeno nuovo: dobbiamo imparare a gestirlo e maturare una giusta sensibilità, che gradualmente cambierà i comportamenti sia dei singoli sia delle piattaforme online. Serviranno, forse, nuove norme, perché quelle vecchie non catturano la complessità della realtà odierna. E’ sempre stato così in ogni campo. Sarebbe sbagliato ignorare o sminuire i problemi attuali e potenziali; ma non c’è alcuna evidenza che questa volta le cose siano diverse dalle infinite volte precedenti. Sotto questa discussione c’è comunque un elemento che viene costantemente ignorato.
Il mitico dato non esiste in natura; o, se si preferisce, prima dei cellulari era materiale grezzo privo di qualunque valore, un po’ come il petrolio prima del motore a combustione interna (quando infatti era considerato un liquido sporco che inquinava i pozzi). Il petrolio è diventato oro nero solo quando il progresso tecnologico e la competizione capitalistica ne hanno cavato fuori un’utilità: allo stesso modo, il dato diventa fonte di ricchezza – per chi lo gestisce e per chi lo produce – solo quando la tecnologia propone e il mercato dispone.
Non è che il telefonino sia un oggetto privo di valore senza i nostri dati: sono i nostri dati che non valevano nulla prima che lo smartphone li trasformasse in una risorsa da coltivare. Ci preoccupiamo della privacy, esattamente come abbiamo iniziato a interessarci delle esternalità ambientali delle energie fossili dopo (e non prima) la rivoluzione industriale. Ciò non sposta di una virgola la questione centrale: un conto è prevenire gli abusi, altro è impedire l’uso. Lo smartphone è uno strumento potente e pertanto potenzialmente pericoloso, ma senza di esso l’informazione sarebbe sterile e tutti noi, non solo Jeff Bezos o Larry Page o Sergey Brin o Bill Gates, saremmo meno ricchi.
Forse il touch screen e la suoneria polifonica sono strumenti del demonio, e quando forniamo il consenso al trattamento dei dati stiamo in realtà siglando un patto faustiano. Quanto meno, si tratta di un contratto al quale aderiamo in piena volontà e consapevolezza, vuoi perché siamo animali sociali e la socialità passa anche dalle esternalità di rete che sgorgano dal telefonino, vuoi perché oggettivamente ne traiamo mille vantaggi concreti e quotidiani. Il che ci porta, per un attimo, dall’altro lato del telefonino. Ci conduce, cioè, tra i meandri oscuri delle tech companies che, rapinandoci il dato, vengono accusate di speculare sulle nostre vite, sottrarre risorse al fisco e spadroneggiare dall’alto delle loro posizioni dominanti.
Per capire se questo sia vero, bisogna fare ancora una volta un salto indietro e tornare nella Chicago degli anni Settanta, dove lavorava George Stigler. (Lo Stigler Center for the Study of the Economy and the State gli ha recentemente dedicato un gran convegno, che potete vedere su internet, se volete: vent’anni fa, non avreste potuto). L’economista americano diceva che la concorrenza non è un fiore delicato, ma un’erbaccia resistente: intendeva che le situazioni di monopolio più o meno apparente – quando non sono puntellate da barriere legali – tendono a durare poco, perché i profitti monopolistici attirano potenziali concorrenti che, innovando e differenziando il prodotto, fanno tramontare l’onnipotenza degli incumbent. Se c’è un ecosistema nel quale questa dinamica si è manifestata con assoluta regolarità è proprio quello del digitale: nessun grande monopolista del passato (Xerox, Ibm, Microsoft, Nokia…) lo è più; e comunque non nello stesso senso. Il merito principale non è di un’applicazione muscolare della disciplina antitrust: è dell’avvento di nuovi concorrenti che, anziché competere nel medesimo mercato, ne hanno creato uno nuovo. Di nuovo, non c’è alcuna ragione per ritenere che questa volta sia diverso: forse Google e Amazon e Apple e Samsung sono quasi monopolisti, ma lo sono all’interno di mercati che essi stessi hanno aperto e dissodato. E probabilmente smetteranno di esserlo quando nuove imprese ne soppianteranno il modello di business.
Sono i nostri dati che non valevano nulla prima che lo smartphone li trasformasse in una risorsa da coltivare. Ci preoccupiamo della privacy come abbiamo iniziato a interessarci delle esternalità ambientali delle energie fossili dopo (e non prima) la rivoluzione industriale
In qualche misura, dovete ringraziare la competition policy, anche se in alcuni casi vincoli troppo stretti possono sortire l’effetto opposto (un’altra lezione di Stigler è che proprio la regolamentazione, per quanto bene intenzionata, sovente si traduce in un ostacolo all’arrivo dei competitor). Per il resto, rivolgetevi al mercato.
Proprio le cronache antitrust di questi ultimi anni, comunque, suggeriscono che, per proteggere i consumatori, non serve inventare nuove e complesse architetture normative. Le leggi esistono, bastano e, in alcuni casi, addirittura avanzano: si pensi agli interventi della Commissione europea contro Google e Apple. Al di là delle valutazioni di merito, essi suggeriscono che le autorità già dispongono di efficaci strumenti per rintuzzare gli abusi. In ogni caso l’interesse pubblico non consiste in sé e per sé nel limare le unghie ai giganti, quanto piuttosto nel lasciare che la competizione faccia il suo mestiere, cioè distrugga e crei. Non è dalla benevolenza dello Stato che ci aspettiamo l’innovazione, ma dai fenomeni esplorati da Adam Smith, Charles Darwin, Ronald Coase e Friedrich Hayek. L’evoluzione non ha selezionato le giraffe in ossequio a un decreto ministeriale. L’ambiente, cioè il contesto specifico di tempo, luogo e tecnologia, ha premiato le caratteristiche più utili, e le ha eliminate quando hanno smesso di esserlo. Il giudice della concorrenza nel mercato digitale, prima e sopra i parlamenti e i tribunali, è il consumatore. Oggi, la sua arma è lo smartphone.
Cellulare e socialità
Ogni arma va usata in modo responsabile. La reazione conservatrice al telefonino sembra avere almeno un argomento dalla sua: non importa quanto il cellulare sia vittorioso sul terreno dell’efficienza economica, se poi conduce alla disgregazione dei legami sociali. Il contatto costante con lo smartphone sembra averci allontanato dalla dimensione comunitaria della nostra vita; e, in alcuni casi, ha trasformato persone normali in esagitati leoni da tastiera. Il cellulare ci ha resi ossessivo-compulsivi e ha, per la prima volta, fatto di ogni uomo un’isola. In una parola, ha distrutto quello che rende la vita degna di essere vissuta.
C’è qualcosa che non torna: se il cellulare ha un effetto tanto negativo sulla vita di tutti, e non solo degli individui più fragili, perché nessuno riesce a farne a meno? Produce assuefazione come le droghe? La risposta è più banale di quello che sembra: il pulpito di internet non è solo uno sfogatoio in cui tutti liberano i propri peggiori istinti, potendo contare su un palcoscenico globale. Esso è una grande e nuova opportunità di socializzazione, secondo canoni diversi da quelli del passato ma non meno dinamici. E’ vero: i ragazzi decidono su Whattsapp cosa fare la sera anziché darsi appuntamento al bar del paese e sostituiscono le faccine ai sentimenti. E’ vero: i giovani annegano lo sguardo nello schermo anziché confrontarsi coi genitori (ma davvero noi, a cena, passavamo tutto questo tempo a discutere con mamma e papà?). E’ vero: un’esposizione eccessiva allo smartphone può far male ai bambini. L’anedottica sui casi in cui lo smartphone ha fatto male a singoli individui è sterminata; così come molti si sono persi nelle bische clandestine e nelle sale giochi di una volta, senza che questo abbia mai portato a vietare la tombola o bandire i biliardini. L’esistenza di soggetti deboli (i bambini o gli individui con problemi) obbliga ad assumere adeguati strumenti di protezione, ma non implica che tutti debbano essere trattati come se fossero marmocchi irresponsabili.
Il Blackberry era lo strumento perfetto per lavorare. La ragione per cui l’iPhone prima, e Android poi, lo soppiantarono non sta tanto nelle migliori prestazioni dei device: sta nell’intuizione dello store. Il mercato delle app ha trasformato lo smartphone. Sottomano, la soluzione dei problemi
Inoltre, lo smartphone introduce una nuova socialità, che non è necessariamente peggiore (o migliore) di quella del passato: è solo quella del presente, e comporta rischi e opportunità differenti. Spesso le cose sono controintuitive. Lo psicologo americano Steven Johnson ha mostrato che la televisione e i videogames stimolano i neuroni anziché annichilirli. Nel suo libro “How We Got to Now: Six Innovations That Made the Modern World” (Riverhead Books, pp. 320, dollari 13,10) argomenta che spesso le grandi innovazioni generano reazioni, problemi e preoccupazioni, ma danno vita anche a cambiamenti imprevedibili e, in ultima analisi, benefici. Se non lo fossero, le novità sparirebbero rapidamente. Le discariche sono piene di tecnologie che non hanno avuto successo.
Lo smartphone ci spaventa proprio perché mette in discussione abitudini consolidate, nei campi più diversi: è proprio questo che lo rende un oggetto prezioso. Forse, l’oggetto più prezioso che abbiamo. Ed è proprio questo che spiega le resistenze con cui si scontra: ogni innovazione, ha mostrato Calestous Juma, produce una reazione tanto più forte quanto più mette a repentaglio vecchi equilibri anche in ambiti apparentemente distanti (“Innovation and Its Enemies”, Oxford University Press pp. 432, euro 26,73).
A proposito: le parole sono importanti, e due in particolare. Una: “noia”. Il cellulare riempie ogni interstizio del nostro tempo. Lo smartphone ha ucciso la noia, e scusate se è poco (ancora una volta: senza dimenticare che un po’ di noia può far bene, ogni yin ha il suo yang). L’altra: “rete”. Il telefonino è solo un pezzo di plastica se non è connesso. Non è l’hardware che ci seduce, ma il software e l’infrastruttura sottostante. Cos’è la società, se non una rete di individui? E come può uno strumento che allarga a dismisura i confini della rete, che connette in infiniti modi tutti i puntini, essere uno strumento anti-sociale? Nel 1929 lo scrittore ungherese Frigyes Karinthy coniò per primo l’ipotesi dei sei gradi di separazione (era fiction; sarebbe diventata scienza quarant’anni dopo, grazie allo psicologo Stanley Milgram). Oggi, chiunque ha la possibilità di dialogare direttamente via Twitter col Papa, Donald Trump e persino Tomaso Montanari. Domanda: di chi è il merito? Spoiler: del telefonino.
Oppure, guardiamola da un altro lato. Tutti pensano che lo smartphone sia nato nel 2007 con l’immissione sul mercato dell’iPhone. Bisogna, in realtà, andare un po’ indietro: tra il 1999 e il 2002, quando la Rim rilasciò i primi modelli di Blackberry (sempre sia lodato per quello che era e per quello che ha messo in moto). L’azienda canadese inventò un mercato di cui divenne rapidamente quasi monopolista – e dal quale quasi altrettanto rapidamente venne espulsa, a dimostrazione di quanto sia competitivo l’ecosistema digitale. Il Blackberry era lo strumento perfetto per lavorare. La ragione per cui l’iPhone prima, e Android poi, lo soppiantarono non sta tanto nelle migliori prestazioni dei device: sta nell’intuizione dello store. Il mercato delle app ha trasformato lo smartphone da giocattolo per workaholic a fenomeno di massa.
Il Blackberry ci aveva messo l’ufficio in tasca. Gli smartphone di oggi ci offrono l’informazione, lo svago, il rapporto interpersonale, il consumo e la produzione di servizi. In breve, una parte importante della nostra socialità, che non ne viene fagocitata ma semmai si espande verso nuove frontiere.
Qual è, allora, il sugo di tutta la storia? Sarebbe facile liquidare quella contro lo smartphone come una battaglia di retroguardia, una concione da bigotti, l’eterna pretesa paternalista di fermare il vento con le mani. Sarebbe tuttavia limitativo, parziale e in fondo sbagliato. Espellere il telefonino dalla nostra quotidianità è peggio che impossibile: è indesiderabile. E’ vero, l’uomo ha vissuto per decenni senza lo smartphone e quindi potrebbe tranquillamente farne a meno. Prima ancora ha tirato avanti per secoli senza internet, il computer, l’energia elettrica, la lavatrice, il riscaldamento e “Game of Thrones”, e potrebbe parimenti rinunciarvi. Eppure queste comodità sono diventate una parte ormai scontata della società moderna a cui nessuno sano di mente si sogna di abdicare. Magari ci avranno rammolliti: dovremmo dedurne che senza di essi la nostra vita tornerebbe bella come una volta? Risponderebbe il Galileo di Brecht: “Sapete come si sviluppa la perla nell’ostrica? Un corpo estraneo insopportabile, per esempio un granello di sabbia, penetra dentro al guscio, e l’ostrica, per seppellire quel granello, secerne calce; e in questo processo rischia la morte. Allora, dico io, al diavolo la perla, purché l’ostrica resti sana!”.
Il telefonino è progresso.Se le persone scelgono di possedere uno smartphone non è per costrizione: con le proprie azioni concrete, rivelano le proprie preferenze. Dimostrano che avere molto a portata di clic è meglio che essere distanti da tutto. Alla faccia della disgregazione sociale: gli individui vogliono essere vicini da loro. La storia della nostra specie può essere letta come uno sforzo di accorciare le distanze: abbiamo cominciato costruendo strade, oggi abbiamo interconnesso l’umanità. E, nel farlo, abbiamo continuamente ridefinito la linea della frontiera, perché tanti traguardi che prima apparivano lontani ora sono quasi un’ovvietà. Il sole sorge a est, la domanda di un bene cala quando il prezzo aumenta, e se voglio del sushi posso ordinarlo dal mio telefonino. Abbiamo risolto vecchi problemi, e siamo inciampati in questioni nuove.
Tutto cambia sempre e anche adesso. Non importa se abbiamo talvolta la sensazione che prima fosse meglio: le cose sono come sono perché miliardi di individui, ogni istante e continuamente, gli uni indipendentemente dagli altri e gli uni assieme agli altri, lo scelgono e lo vogliono. Avevano ragione i Rem: “it’s the end of the world as we know it”. Però citiamoli fino in fondo: “and I feel fine”.
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