Zuckerberg passa la prova del Senato (che non capisce cosa sia Facebook)
I senatori, salvo rari casi, sono sembrati vecchi nonni che chiedevano al nipote come funzionava il telefonino. E mentre il ceo rispondeva alle loro domande senza mordente, il titolo del social network cresceva in Borsa
Mark Zuckerberg, ceo di Facebook, non aveva ancora terminato la sua udienza davanti alle commissioni Giustizia e Commercio del Senato americano che il titolo dell'azienda aveva già iniziato a salire. Alla fine della maratona di domande, quasi cinque ore, il titolo di Facebook è salito in Borsa del 4,5 per cento, il massimo negli ultimi due anni, dato eccezionale visto che Facebook, da mesi, colleziona soltanto crolli e rari recuperi.
La reazione di Wall Street è un buon indicatore di come sta andando il tour congressuale di Zuckerberg, in attesa della deposizione di oggi alla Camera: per ora, è la vittoria di Facebook. Zuckerberg, notoriamente un pessimo oratore in pubblico, si è preparato per settimane all'evento; i 44 senatori americani che l'hanno interrogato evidentemente no. Tutti si aspettavano una performance robotica e impacciata, e in questi giorni è molto circolato il video di una conferenza del 2010, in cui Zuckerberg, pressato dalle domande del giornalista Walt Mossberg, inizia a sudare incontrollabilmente ed è costretto a togliersi la felpa e asciugarsi la fronte, tra l'imbarazzo malcelato dei presenti. I senatori pensavano di avere ancora davanti quello stesso ragazzo 25enne. Si sono trovati davanti un uomo di 33 anni, il ceo di una delle compagnie più potenti del pianeta, addestrato come uno squalo.
L'ex impacciato Zuckerberg ha avuto pochissimi momenti di incertezza, non ha mai perso vigore per tutte le cinque ore dell'udienza (quando è stata proposta una pausa, lui ha detto scherzando che poteva andare avanti) ed è riuscito a deflettere quasi tutte le domande più pericolose. Quando le domande diventavano troppo specifiche, è sempre riuscito a evitare la risposta: "La farò contattare dal mio team su questo tema", è la frase che Zuckerberg ha ripetuto in infinite varianti tutte le volte che i senatori chiedevano dati, certezze, promesse. Queste ultime sono importanti. Il ceo di Facebook ha saputo uscire da quasi 5 ore di interrogatorio senza fare nessuna promessa specifica di riforma e senza sostenere nessun progetto legislativo di regolamentazione. Ha riconosciuto che un po' di regolamentazione "ma fatta in modo giusto" può contribuire alla causa, ma non si è spinto oltre.
Non tutto è andato liscio, ovviamente. Zuckerberg si è dovuto scusare più e più volte per il caso Cambridge Analytica, ha ammesso di aver commesso errori, come l'abbiamo già visto fare secondo uno schema predefinito nelle interviste delle ultime settimane con i principali media americani. Alcuni senatori gli hanno dato filo da torcere, e in seguito si sono detti insoddisfatti delle non-risposte del ceo, promettendo azioni legislative. Ma, come ha giudicato anche Wall Street, basandosi sull'udienza senatoriale è piuttosto facile prevedere che non ci saranno nuove regolamentazioni, se non molto leggere. A pesare sull'incertezza dei legislatori ci sono anche state le divisioni politiche, con i democratici più propensi a interrogare Facebook sulle interferenze russe e i repubblicani a condannare il liberal bias della società. Molto dipenderà dall'udienza di oggi alla Camera.
Ma la pessima performance, alla fine, è stata quella dei senatori. Ripetitivi, macchinosi, a tratti imbarazzanti, loro sì, nella loro completa disconnessione da una materia (i regolamenti di Facebook, le minuzie della policy sulla privacy, la posta in gioco per la democrazia) che è sì complessa ma può essere studiata. Zuckerberg è stato beneficiato, con pochissime eccezioni, da domande senza mordente, in cui i senatori sono apparsi come i vecchi nonni che chiedono al nipote avvezzo alla tecnologia come funziona il telefonino nuovo.
E' la stessa dinamica che si verifica tra Facebook e i suoi utenti: è troppo complicato capire come Facebook usa i nostri dati, alla fine ci fidiamo e speriamo che non finiscano in mani troppo losche.