Spudorato e impeccabile, Zuckerberg al Congresso è stato perfetto
Sembrava un giovane Holden, ma anche un giovane Kissinger
Ha fatto del mondo una cosa aperta e intercomunicante, e gli chiedono della privacy. Ha abrogato la stampa, facendo di ciascuno l’editore di se stesso, e gli chiedono a quali regole editoriali si accomodi la sua piattaforma. Ha eliminato ogni gerarchia, frontiera, ogni discrimine, e gli chiedono conto di quanto accada al di là della cortina di ferro precedente a Facebook. Ha dato voce alla folla dei microindividui, e gli chiedono delle leggi del liberalismo. Ha dato fondo all’esibizionismo umano, gli parlano del pudore. Ha fatto di ciascuno la spia di sé e degli altri, gli domandano del Kgb. Situazione astrusa, ma non era lui l’alieno, erano loro gli alieni. Senatori e congressman non ci credevano, sapevano benissimo che l’ultimo round di scuse di Mark Zuckerberg era un pro forma, eppure dovevano riconoscere che lui era sincero, e l’hanno riconosciuto. Si apprestano a varare norme, e lui della loro efficacia e bontà ha risposto: “Dipende quali norme”. Ma con quella faccia incantevole, quella cravatta che sembrava cucita addosso a un altro, quella buona educazione che vince e convince la Borsa (+5,5 per cento in due giorni), quel sorriso stupendo.
Il Wall Street Journal in un video ha fatto vedere come in meno di un quindicennio il più giovane miliardario e inventore di tutti i tempi è passato dalla libertà per tutti, dalla voce di tutti e di nessuno, dalla connessione universale alla responsabilità, sì, responsibility, in perfetta sintonia con la caduta dei riccioli rossi, immolati a Cambridge Analytica, con la paternità Facebook e personale, con il passare del tempo e il consolidamento inaudito della piattaforma. È stato perfetto, sembrava un giovane Holden, ma anche un giovane Kissinger. Non ha raccolto nessuna provocazione, nemmeno sulla Cina, dove ha assicurato che operano ottime piattaforme di Internet. Ha fatto ridere tutti quando Dick Durbin gli ha domandato se gli farebbe piacere dire dove ha dormito o quali messaggi e a chi ha mandato negli ultimi giorni. “No, Senator, non in pubblico”, ha risposto dopo un contorcimento facciale, face, il suo segreto, di qualche secondo lunghissimo. “Di questo si tratta”, ha replicato il senatore. E te ne accorgi adesso?, sembrava la risposta muta dell’immenso e imberbe tycoon.
A marzo venne fuori che un centinaio di milioni di persone, chiamiamole così, erano state defraudate dei loro dati personali senza controllo. Che di quei dati era stato fatto un uso commerciale e politico, ma da anni e anche sotto elezioni. Lui ha detto che aggiunge cinquemila persone alle funzioni di controllo algoritmico, ma ha aggiunto che non ci saranno mai abbastanza forze per controllare tutto. Ma va? Il mondo aperto e interconnesso può sfuggire al controllo? Senato e Camera bassa sono stati dignitosi, anche se le informazioni in loro possesso non sembravano sempre di prima mano, e comunque meglio così che in Cina, meglio questo che le spiate inutili di Christopher Wylie, meglio Facebook, che non mi avrà mai, meglio del Congresso del popolo o della Duma di Mosca o della Cambridge Analytica di San Pietroburgo (Internet Research Agency, dove la parola che conta è Agency). Il mio non è un monopolio, in media sono nove le app usate dall’utente americano del web, così se uno non è contento della sua Ford, risposta all’ennesima provocazione, può prendersi la sua Chevy. Facebook è uno strumento sicuro, io me ne servo, la mia famiglia se ne serve, e questo vi basti. Spudorato, impeccabile, al centro della democrazia rappresentativa, il suo Avversario ha fatto una splendida figura. Perché ci mette non solo la sua faccia meravigliosa ma un miliardo e mezzo di facce. Cioè Facebook.
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