Processo alla Silicon Valley
Zuckerberg che depone al Congresso è solo un tassello dell’epocale atto d’accusa ai giganti della tecnologia, falsi profeti del mondo nuovo. Tutti i capi d’imputazione nella rivoluzione culturale in corso, e in quella che verrà
Mark Zuckerberg è uscito trionfante dalle interrogazioni parlamentari almeno quanto il titolo di Facebook, in significativo aumento durante la due giorni al Congresso. Eppure il fatto stesso che l’icona di tutte le promesse della Silicon Valley sia infine dovuto salire a Capitol Hill e rispondere sotto giuramento alle domande – spesso ridondanti, talvolta surreali – dei rappresentanti del popolo americano è il segno di un tempo fatto di paura e sospetti verso i grandi della tecnologia. Non è da oggi che il sogno del mondo nuovo che promana dal settore tech è diventato un incubo agli occhi degli utenti. Google, Facebook, Amazon & Co. promettevano liberazione e hanno dato controllo, sbandieravano emancipazione e hanno offerto schiavitù, volevano promuovere la vita e si sono trovate con i suicidi live, esaltavano la democrazia e ci hanno dato i troll russo-trumpiani. Il techlash è nella sua fase ruggente, l’età dell’innocenza digitale è un ricordo remoto, ancestrale. In questo clima, le interrogazioni di Zuckerberg sono diventate, almeno visivamente, il primo atto formale di un epocale processo culturale alla valle delle meraviglie, ormai declassato a valle delle disillusioni. Zuckerberg è uscito vincitore da questa seduta preliminare, ma ci sono altre accuse, altri capi di imputazione, altri sospetti, indizi e testimoni che occorre mettere in ordine per afferrare l’entità di un procedimento che non si chiude certo con un paio di sedute in cravatta al Congresso.
Quando il vento è cambiato
Ancora un paio di anni fa, la parola da associare alla Silicon Valley americana, e in generale all’industria tecnologica, era “utopia”. Soltanto un anno fa Zuckerberg girava l’America in un tour molto politico, con i media che parlavano entusiasti di “Zuck 2020”. Oggi, la parola chiave per capire quello che sta succedendo nella Silicon Valley è techlash, termine coniato dall’Economist. Se si dovesse definire un solo evento che ha scatenato il techlash, sarebbe l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti nel 2016, quando tutti gli utopisti dentro e fuori la Silicon Valley hanno appreso con orrore che gli strumenti che avevano immaginato per cambiare il mondo erano stati invasi dalla rivoluzione dell’uomo arancione. Ma Trump è stato soltanto un detonatore. Gli elementi che hanno trasformato l’utopia tech in un incubo erano lì da anni. La Silicon Valley prova disprezzo per la privacy dei suoi utenti, ha allentato il controllo dei media sulla politica (detta più esplicitamente: li sta facendo fallire), sta propiziando una rivoluzione antropologica e in alcuni casi biologica di cui non conosciamo le conseguenze, ha costruito un sistema di controllo (sarebbe: targettizzazione) che per ora serve a venderci pantofole e biglietti del cinema, domani chissà. Trump, e insieme a lui la Brexit e l’ondata populista, ci ha detto soltanto che i social media possono essere usati per minare la democrazia, ma perfino i troll russi che l’avrebbero aiutato nell’impresa non sono una rivelazione. Sappiamo da tempo che i social media e gli strumenti messi a punto dalla Silicon Valley possono essere usati dai cattivi. Lo abbiamo visto per esempio con gli hacker nordcoreani che hanno messo in ginocchio Sony Pictures nel 2014.
Nel frattempo, la Cina strappava via un altro pezzetto di eccezionalismo occidentale, costruendo giganti tecnologici che ci ricordano che non abbiamo il monopolio sull’innovazione. Insomma, se oggi gli esperti e l’opinione pubblica pensano che Google, Facebook e compagnia costituiscano una minaccia potenziale (per il futuro di internet, per la democrazia, per la libertà d’espressione, per le facoltà affettive della razza umana) in realtà non è successo niente che i Jaron Lanier e gli Evgeny Morozov non avessero predetto anni fa. Il techlash non è una delusione improvvisa; è la maturazione di un sistema che non ha saputo correggere i suoi bug.
L’accusa di monopolio
Mettiamo che vogliate abbandonare Facebook. Quali alternative avete? Lo sappiamo bene: nessuna. Mettiamo che vogliate fare una ricerca su internet senza usare Google. L’alternativa è Bing, ma non prendiamoci in giro. Già da tempo, quanto meno nel mondo occidentale, la Silicon Valley è un monopolio. Negli Stati Uniti (nel resto dell’occidente i numeri sono paragonabili) Google domina l’89 per cento delle ricerche online, il 95 per cento dei giovani adulti usa Facebook e Amazon vende il 75 per cento di tutti gli ebook. Ora: i monopoli, da che mondo è mondo, vanno spezzati per il bene della concorrenza e del libero mercato. Non è detto. Entra in scena il “paradosso dell’Antitrust”, o “paradosso di Bork”, dal nome del giurista che negli anni Settanta disse: le grandi compagnie possono essere buone per l’efficienza dell’economia. Da qui nasce il principio che regola ancora oggi il lavoro di tutte le antitrust del mondo: non importa quanto un’azienda è grande o quanto dominante è la sua quota di mercato. L’importante è che il consumatore sia tutelato e garantito. E’ per questo che nessuno si è mai sognato di rompere i monopoli della Silicon Valley: i prodotti che offrono sono efficienti, utili e per di più gratuiti, cosa desiderare di più? Ma in quest’epoca di techlash anche su questo stiamo assistendo a un ripensamento. Il fatto è che finora anche i più attenti regolatori avevano frainteso quale fosse il “prodotto” della Silicon Valley: non Gmail o i messaggini di Facebook, ma i dati ottenuti dagli utenti. Qui il tema delle tutele diventa problematico perché, come hanno dimostrato innumerevoli scandali, quando si parla di dati la Silicon Valley non ha scrupoli. Da mesi si levano voci sulla rottura dei monopoli tech. La più autorevole di tutte è stata quella del Wall Street Journal, il giornale più pro business d’America, che a gennaio paragonò Google e Facebook e Amazon a Standard Oil e ad At&T, che furono smembrate dalle autorità federali all’inizio del Novecento. Durante l’udienza congressuale di Mark Zuckerberg, un senatore gli ha chiesto se ritiene che esistano alternative effettive a Facebook. Lui ha sviato la risposta dicendo che mediamente gli americani usano ben otto app “per comunicare tra loro”. Ha omesso un particolare: quattro di queste appartengono a Facebook.
La solitudine della vita digitale
Qualche anno fa Vivek Murthy, il surgeon general degli Stati Uniti, ha dichiarato che la patologia con la più grave incidenza sulla popolazione non è il diabete o il cancro, ma la solitudine. L’assenza di legami stabili, profondi, diminuisce l’aspettativa di vita, fa lievitare l’uso e l’abuso di farmaci, sfibra il tessuto umano e dunque quello della società. Ora Murthy guida una campagna pubblica perché la solitudine sia riconosciuta come un’epidemia. L’iniziativa è in linea con le osservazioni di autorevoli sociologi e le prese di posizione politiche di alcuni governi, dall’allarme del bowling giocato da soli di Robert Putnam al ministero per la Solitudine istituito in Inghilterra da Theresa May. L’accusa mossa all’industria tecnologica è di avere accelerato, portato all’acme e infine cronicizzato il processo morboso che stava divorando l’uomo contemporaneo, nascondendosi dietro alla fallace promessa di un mondo più connesso e relazionale. C’è una certa differenza fra l’animale “compagnevole” di Aristotele e l’animale social di Zuckerberg. Nel suo Alone Together, bibbia dei critici della solitudine digitale, Sherry Turkle ha scritto che “il mondo oggi è pieno di gente che trova conforto nell’essere in contatto con persone che, allo stesso tempo, tiene a distanza” e che le “connessioni digitali offrono l’illusione della compagnia senza le richieste dell’amicizia”. La psicologa Jean Twenge ha dimostrato in vari studi che più i ragazzi sono esposti a smartphone e altri device, meno si impegnano in relazioni durature e significative. La solitudine generata dalla vita digitale è diventata sempre più evidente a una moltitudine che cerca, confusamente ma con veemenza, nelle appartenenze nazionali e nelle proposte identitarie di ogni genere e foggia il proprio posto nel mondo.
Analfabetismo e asimmetria informativa
La salva di domande lunari sparate da deputati e senatori a Zuckerberg ha rivelato che, a parte alcune lodevoli eccezioni, i rappresentanti del popolo americano non conoscono la basi del modello di business di Facebook, e dunque dell’intera industria tecnologica. Come si producono entrate, in che modo vengono gestiti i dati, a chi e come vengono venduti, secondo quali criteri viene aggiornato il codice che regola il funzionamento del network: questi e molti altri aspetti del social sembravano pressoché ignoti ai rappresentanti che interrogavano il ceo di Facebook. Uno gli ha domandato come faceva la sua compagnia a guadagnare senza far pagare gli utenti, cosa che ha suscitato una risposta imbarazzata: “Mettiamo della pubblicità”. Costoro vivono nella bolla preistorica del vecchio establishment di Washington, si dirà, ma tutti gli altri sanno davvero come funzionano queste compagnie? I nativi digitali che usano i social come estensioni naturali della personalità sanno come questi gestiscono e monetizzano i loro dati, che rapporti stabiliscono con inserzionisti e partner, quali strumenti hanno per difendere le loro informazioni? Uno studio di Digital Content Next dice di no, e apre il tema ancora largamente inesplorato dell’analfabetismo digitale. Anche gli utenti che padroneggiano l’esperienza digitale faticano a descrivere in termini semplici il funzionamento di aziende come Facebook, e l’86 per cento di quelli che hanno preso iniziativa per modificare le impostazioni della privacy sui social vorrebbe difendersi ancora di più, ma non conosce gli strumenti che ha a disposizione. Si rivela un problema di “asimmetria informativa” fra gestori e utenti, una dinamica di squilibrio simile a quella che avviene nel rapporto fra un meccanico e un automobilista che deve riparare la macchina. La differenza fra i due modelli è che il meccanico promette di aggiustare le auto, non di insegnare il mestiere ai clienti, mentre i colossi della tecnologia hanno costruito la loro fortuna sulla promessa di generare persone più consapevoli, connesse, indipendenti, responsabili e capaci di giudicare da sé.
Facebook conosce davvero Facebook?
La deputata Debbie Dingell ha iniziato la sua sessione di domande facendo l’elenco di tutte le cose che Zuckerberg ha detto di non sapere durante la sua deposizione. Fra queste c’è anche il fatto che Zuck non sa cos’è uno “shadow profile” e non ha un’idea chiara “del tipo di informazioni che la compagnia raccoglie sui suoi utenti”. L’uomo che s’è inventato una rete che controlla e fa fruttare un paio di miliardi di account ha risposto con una marea di “non lo so” a domande sulle operazioni della sua azienda. Al netto delle reticenze che può avere offerto per convenienza, è assai probabile che la destra di Zuck non sappia cosa fa la sinistra, cosa che in questo caso non è segno di virtù. Nel suo libro A World Without Mind, il giornalista Franklin Foer spiega in modo articolato che le grandi aziende basate su codici e algoritmi complicatissimi, infrastrutture congegnate da diverse generazioni di ingegneri, non hanno davvero il controllo su strumenti di tale portata e complessità. Oltre una certa soglia, nessun ingegnere e nessun management può padroneggiare la potenza incontrollabile dei dati, tanto che Zuck ha detto al Congresso che perfino i suoi dati personali sono stati succhiati a sua insaputa. E laddove non può arrivare la capacità di controllo tecnologica è assai improbabile che possa arrivare efficacemente la legge, alla quale ora si chiede di mettere un argine agli eccessi. E’ un paradosso del teclash che si proietta nel futuro: il cambio di umore verso la Silicon Valley è iniziato con timori di tipo orwelliano, legati alla massiccia erosione della privacy e al controllo dei dati, mentre ora si muove verso l’incapacità degli stessi attori di controllare le forze che hanno scatenato. Si puntava il dito contro Zuckerberg & Co. dicendo “sapete tutto di noi!”, ora si passa al “non sapete abbastanza di voi!”.