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La privacy è morta e non possiamo più salvarla. Strategie per non soccombere

Eugenio Cau

Rassegnarsi o affidarsi. Un articolo sul Wsj e antiche profezie degli anni novanta

Roma. Annunciare la morte della privacy non è più un’attività originale da almeno vent’anni. La prima polemica ad alto interesse mediatico si generò nel 1999 (!) quando Scott McNealy, allora ceo di Sun Microsystems, disse durante un evento pubblico che “la vostra privacy [degli utenti, ndr] ormai è a zero. Fateci l’abitudine”. Era l’alba dell’èra di internet, e quella frase (“get over it”) sarebbe stata ripetuta allo sfinimento. Al tempo Sun Microsystems era sulla breccia dell’economia digitale, ma negli anni Duemila il suo business è entrato in crisi, e nel 2011 è stata costretta a vendere il suo gigantesco quartier generale da 93 mila metri quadrati in zona Menlo Park, California. L’acquirente? Facebook. Il ceo Mark Zuckerberg si è rivelato un degno erede di McNealy.

    

Nel 2008, le polemiche intorno al successo di Facebook portarono al primo grande dibattito sulla privacy online. Nel 2010, Zuckerberg rese chiara la sua opinione in materia quando disse che “la privacy non è più la norma sociale dominante” – quella frase lo perseguita ancora oggi. Nel 2013, l’affaire Snowden contribuì a estendere alle masse la sensazione di vulnerabilità. Infine, nel 2018, il caso Cambridge Analytica e l’inizio del techlash (la perdita di fiducia degli utenti nelle aziende digitali) potrebbero aver chiuso la questione: la privacy è morta – lo diciamo da anni, ma questa volta forse è vero.

      

Lo ha scritto sul Wall Street Journal di ieri il columnist tecnologico Christopher Mims, usando la formula più inesorabile di tutte: “Privacy is dead”. La ragione è semplice: la privacy è morta perché non c’è più modo di difenderla. Che tu sia una casalinga o un hacker, è quasi matematicamente impossibile che qualche dato non esca fuori dal tuo controllo. Per ottenere la privacy completa, ormai, non solo bisognerebbe avere una competenza tecnica molto sopra la media (smanettare con le impostazioni di Facebook non serve a molto), ma bisognerebbe smettere di usare i social media, tutti i servizi di internet, le carte di credito, gli smartphone, tutti i dispositivi connessi. In pratica, bisognerebbe trasformarsi in moderni eremiti – soluzione consigliabile a pochi fondamentalisti. Il problema non è soltanto l’impossibilità di proteggere i propri dati. La privacy nell’èra digitale funziona come i vaccini: serve l’immunità di gregge. Mims cita una ricerca dell’Imperial College London in cui si dimostra che un bravo hacker sarebbe in grado di localizzare la posizione di metà degli abitanti di Londra infettando con un malware soltanto l’uno per cento dei cellulari. Puoi fare tutto giusto e difenderti al meglio, ma alla fine saranno i tuoi amici e vicini di casa a incastrarti.

     

Insomma, viviamo in un’èra in cui siamo costretti a convivere con l’assenza di privacy, per la ragione semplice che non esistono più i mezzi per difenderla.

    

Una possibilità è rassegnarsi. Nell’ormai lontanissimo 1996, lo scienziato e scrittore fantascientifico David Brin profetizzava su Wired che ben presto evitare la sorveglianza sarebbe stato impossibile (ormai ci siamo), e che il nuovo paradigma sarebbe stato la trasparenza: l’importante non è proteggere i propri dati, è sapere chi li possiede e manipola.

   

Un’altra possibilità è affidarsi. È la soluzione ipotizzata da Mims sul Wsj, che funziona più o meno così: visto che l’individuo non è più in grado di difendere la sua privacy, è meglio affidare questo compito a grandi enti dotati dei mezzi per farlo. Consegniamo a loro tutti i nostri dati e speriamo che li proteggano. Attualmente, questi enti sono soltanto di due tipi: o gli stati (opzione sconsigliabile: sappiamo cosa succede quando il Leviatano ha il controllo totale dell’informazione) oppure le stesse compagnie di internet che in questi anni sono state accusate di violazioni ripetute della privacy. Per salvare il salvabile, dovremmo cedere a Facebook molti più dati di quelli che ha, e sperare che Zuckerberg abbia un ripensamento sulle “norme sociali”.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.