La Silicon Valley europea sul filo di Brexit
Londra grande hub per il fintech e altro. Ma tutto è minacciato dall’uscita dall’Europa
Nel rispondere a una domanda allusiva del Foglio sul futuro del Regno Unito nel panorama tecnologico europeo e mondiale – a una domanda, vale a dire, che cercava di citare la Brexit, Jeffrey Peel, direttore del settore Tecnologia del dipartimento per il Commercio estero del governo britannico, alza un sopracciglio ed esclama: “Oh, ti riferisci alla B-word!”. Ecco, il problema della Brexit nel Regno Unito nel 2018, a due anni dal referendum e a una quantità indefinita di mesi dal distaccamento definitivo dall’Unione, sempre che avvenga, è esattamente questo: al tempo stesso tutto parla di Brexit, ma parlare di Brexit è spesso inutile, o perfino controproducente. Il mandato che arriva tanto dalle più alte sfere del governo britannico – almeno a giudicare dall’idea che ne danno i media locali – fino agli uffici delle più modeste aziende è: navigare a vista. Non sappiamo cosa sarà la Brexit, e l’unico modo per cercare di parare tutti i possibili colpi è immaginare ogni scenario e preparare un piano A, un B e un C, giù fino al piano-fine-di-mondo. Per alcune aziende, questo piano estremo è la fuga dal Regno Unito. Se ne parla da anni, dal giorno del referendum, ma questa fuga in gran parte non è ancora avvenuta. Ci sono stati alcuni casi eclatanti, ma nel business più strategico di tutti, quello dell’innovazione, Londra continua a dominare in Europa – specie nel fintech, l’innovazione finanziaria, dove la capitale britannica ha molti primati di livello mondiale.
Pronti a scappare o decisi a cavalcare le opportunità della Brexit. Sono i due atteggiamenti della comunità tech di Londra
Nel 2017, secondo l’agenzia London & Partners, che lavora per il comune di Londra, il Regno Unito ha accolto circa 3 miliardi di sterline di fondi di venture capital per le imprese tecnologiche con sede nel paese, più di quattro volte i fondi raccolti in Germania e più di Francia, Irlanda e Svezia messe insieme. Ci sono stati alcuni segnali preoccupanti: nel mese di novembre, per esempio, la società Atomico ha segnalato che le startup francesi per la prima volta in cinque anni avevano chiuso più round di finanziamento di chiunque in Europa – comprese le startup britanniche. Ma il trend, almeno per ora, non sembra subire segnali di inversione: secondo dati di Stack Overflow, Londra rimane di gran lunga la meta più importante in Europa per i programmatori software, e il sindaco Sadiq Khan ha detto di recente ai giornali che “Londra è la capitale tech dell’Europa e ospita alcune delle menti più tecnologiche e creative che ci siano al mondo”.
Esattamente una settimana fa, il Foglio è stato invitato a un evento organizzato da Smau, il primo del suo genere. La principale fiera su digitale e innovazione d’Italia ha portato a Londra una quarantina di startup italiane, con l’idea di farle conoscere nel mercato innovativo più fertile d’Europa e di far conoscere loro le possibilità che Londra può offrire. Smau organizza da tempo eventi di questo tipo a Berlino, l’altra capitale delle startup europee, e questo di Londra è il primo. E’ un segnale di fiducia e di opportunità pronte per essere colte.
A un evento organizzato da Smau, 40 startup italiane si sono presentate agli investitori britannici e hanno saggiato il clima
Quello delle opportunità è uno dei temi centrali del panorama tecnologico nel Regno Unito post Brexit. Vede nuove possibilità che si aprono dove molti altri vedono rischi Intesa Sanpaolo, prima banca d’Italia, che era presente all’evento di startup londinese con il suo Innovation Center. Nato nel 2014 e presieduto da Maurizio Montagnese, l’Innovation Center ha investito in maniera ingente per diventare uno dei centri focali dell’innovazione tecnologica in Italia, con sedi internazionali a Londra, New York, Tel Aviv, Hong Kong. A Londra, l’Innovation Center ha portato cinque startup, alcune delle quali promettenti, come HeartWatch, progetto di alcuni giovanissimi ingegneri e scienziati che hanno sviluppato algoritmi capaci di monitorare, attraverso una telecamera, parametri medici come il battito cardiaco e le anomalie respiratorie di un paziente in un ospedale o in una casa di cura – il tutto, senza sensori attaccati al paziente: basta l’immagine video.
L’investimento di Intesa Sanpaolo su Londra è tuttavia sistemico, e non riguarda esclusivamente l’innovazione. Nel piano d’impresa della società per il 2018-2021 il “potenziamento della filiale di Londra” è descritto in maniera esplicita, e Alberto Mancuso, il direttore della filiale britannica di recente nomina, parlando a una platea di startupper e imprenditori la settimana scorsa ha detto: “Al contrario di altri noi investiremo” nel Regno Unito. La Brexit “cambierà degli equilibri, ci sono paradigmi che vengono meno e questa è una chance eccezionale per noi”.
Questo “noi” può essere inteso anche come sistema Italia. Pierantonio Macola, presidente di Smau, parlando con il Foglio riprende il tema delle opportunità pronte per essere colte. “Il mondo delle imprese e delle startup trova la sua massima realizzazione nel momento di incertezza. Quando i mercati sono consolidati non c’è cambiamento vero. Il Regno Unito è un mercato pazzesco che attualmente è in cerca del suo destino, e secondo noi è proprio questo il momento in cui le imprese, le startup e gli imprenditori innovativi si devono lanciare. L’imprenditore è una figura che per antonomasia si prende dei rischi: sfida il mercato, paga con certezza per sfidare l’incerto. L’incertezza, il cambiamento sono il suo territorio naturale”. E cosa c’è di più incerto del futuro del Regno Unito post Brexit.
Jeffrey Peel, il rappresentante del governo britannico, è ovviamente molto deciso sul tema delle opportunità. Per lui la Brexit, in qualsiasi forma si materializzerà, sarà un’occasione per il Regno Unito di aprirsi al mondo, e uscire dall’ambito angusto dell’Unione europea. “Nonostante il clamore intorno alla Brexit, le imprese vedono ancora il Regno Unito come un mercato chiave e un ponte per il mercato globale, specie quello degli Stati Uniti e della Silicon Valley”, dice al Foglio. “Gli investimenti in innovazione sono al loro massimo, e tutti gli indicatori ci dicono che non smetteranno”. Per Peel, ci sono alcuni fattori strutturali che danno a Londra un vantaggio competitivo sulle altre città europee – Parigi e Berlino in prima linea, ma anche Francoforte, Amsterdam, Dublino – che tenteranno di scippare a Londra il suo ruolo di hub tecnologico europeo: “Ci sarà competizione, ma sappiamo difenderci e non penso che la Brexit ci indebolirà in alcun modo. Tra i vantaggi di cui godiamo c’è la lingua inglese, che è ovviamente la lingua del business, abbiamo lo stesso sistema di Common law degli Stati Uniti, abbiamo a Londra il più fiorente mercato finanziario del mondo e l’ecosistema del venture capital è il più vivace d’Europa. Non vedo affatto l’importanza del Regno Unito in diminuzione”.
E’ impossibile, tuttavia, pensare che dopo la Brexit tutto rimarrà inalterato. La libertà di movimento, la permanenza nel Mercato unico, il tipo di accordo che sarà siglato tra Londra e Bruxelles determineranno in maniera sostanziale il futuro di Londra come hub tecnologico – e, come hanno mostrato le cronache parlamentare britanniche anche soltanto in questi giorni, tutto rimane in gioco. Peel tuttavia rimane ottimista, e dice che per un giovane italiano non sarà mai un problema venire a lavorare nel Regno Unito, a patto che porti con sé un’idea di prodotto innovativa. In questa clausola finale ci sono tutte le difficoltà della trattativa.
L’Innovation Center di Intesa Sanpaolo ha investito 200 milioni per diventare fulcro dell’innovazione italiana, e punta su Londra
L’altra scuola di pensiero riguardo al futuro del Regno Unito come hub della tecnologia e del fintech, forse la più ovvia, è certamente quella della volatilità. Nonostante la professione delle infinite opportunità che la Brexit può presentare, è difficile scalfire l’impressione che tutti, dallo startupparo al grande venture capitalist, tengano alta la guardia, valutino i segnali e i sintomi, preparino manovre diversive, anche estreme. Eleonora Ferrero è il direttore delle operazioni europee di Mind the Bridge, una realtà di coworking londinese. A Londra Mind the Bridge, fondata dall’italiano Marco Marinucci, gestisce un intero piano di un elegantissimo edificio del centro, dove mette a disposizione scrivanie e uffici a startup e giovani imprenditori promettenti. Ferrero, parlando con il Foglio, non si sbilancia su quali possibili trend vede in relazione alla Brexit, ma dice: “Tutte le nostre startup e aziende hanno già preparato un piano di riserva”.
“Se la mia startup non facesse fintech non sarei a Londra, andrei a Berlino o a Parigi”. Benedetta Arese Lucini è una startupper con una storia più interessante della media. Bocconiana, con esperienze negli Stati Uniti e in Asia, nel 2013, a 31 anni, Arese Lucini diventa la general manager di Uber Italia – in pratica, la persona che ha lanciato Uber nel nostro paese. Nei tre anni successivi, Arese Lucini sarà al centro di tutte le polemiche legate a Uber, sarà attaccata dai tassisti e dalle lobby, per un periodo avrà bisogno di girare con la scorta. Nel 2016, mentre Uber veniva falcidiata dagli interventi sempre più restrittivi di legislatori e giudici, che di fatto hanno distrutto lo slancio espansivo della società in Italia, Arese Lucini lascia Uber e decide di reinventarsi startupper. Diventa cofounder di Oval Money, una startup fintech che, tramite una app, consente di accumulare e reinvestire i propri risparmi. La sede operativa è a Torino, ma quest’anno Oval Money ha deciso di investire su Londra. Arese Lucini si è trasferita full time e a marzo ha aperto una seconda sede londinese, dove assumerà tra le 5 e le 10 persone entro l’anno.
“Se non avessi una startup di fintech, sarei già a Parigi o a Berlino”, ci dice la cofondatrice di Oval Money
“Noi abbiamo fatto la prima presentazione di Oval qui a Londra il 23 giugno del 2016, il giorno del referendum sulla Brexit, a una conferenza organizzata da Bloomberg. Visto l’ecosistema ci siamo detti: veniamo qua di sicuro. Il giorno dopo sono usciti i risultati della Brexit”, dice Arese Lucini. “Dal nostro punto di vista è stata durissima: il piano che ci eravamo fatti era crollato completamente. Ma quello che abbiamo visto in questi due anni è che Londra non è il Regno Unito, e sta riuscendo a mantenere un ecosistema specie nel mondo fintech che ancora nessun altro in Europa è riuscito a ricreare. Inoltre, almeno per ora la tanto temuta fuga del mondo finanziario non è avvenuta. Per questo, dopo l’incertezza iniziale, abbiamo deciso di tornare a investire su Londra”. Ma non avete paura che a un certo punto perfino Londra si chiuda e perda la sua rilevanza internazionale? “Sì, ma da brava startupper so che ci sarà sempre un’altra città che vorrà essere Londra. Il fuggi-fuggi dell’innovazione non c’è stato, ma se la Brexit dovesse essere troppo dura ci sarà”.
I due approcci prevalenti della comunità tecnologica nei confronti del Regno Unito alla vigilia della Brexit – quello di chi è deciso a cavalcare l’occasione e quello di chi rimane guardingo e pronto alla fuga – non sono necessariamente antitetici. Decidere di investire a Londra non significa scommettere sulla “soft Brexit”, né preparare un piano di fuga significa aver paura della “hard Brexit”. Forse la Londra post Brexit non sarà più la Silicon Valley del fintech europeo o forse sarà riuscita a passare da hub continentale a hub mondiale. Ma è difficile credere che Londra non saprà più come reinventarsi, dopo averlo fatto con successo negli ultimi trecento anni.