La rete di Babele
I mattoni e i dati personali. La costruzione che prende il sopravvento sulla vita dei costruttori. Ecco cosa unisce il racconto biblico ai cantieri digitali della valle del silicio, dove si edifica l’uomo che sarà
Parlando al Foglio Tech Festival delle altissime e al momento piuttosto appannate ambizioni della Silicon Valley, intesa non appena come industria tecnologica ma come sintesi e avamposto odierno di tutti i sogni di compimento umano, dalla perfetta conoscenza estratta dai big data agli atavici desideri d’immortalità filtrati nell’oggi attraverso la lente della singolarità, Silvano Petrosino ha riesumato il racconto della torre di Babele. E’ una delle storie più note, commentate e fraintese di sempre, alla quale il filosofo della Cattolica ha dedicato, tempo addietro, un densissimo libretto intitolato Babele. Architettura, filosofia e linguaggio di un delirio (il Melangolo). In questo volume offre un’interpretazione originale assai utile per rintracciare il sentiero che congiunge la costruzione nella piana di Sennaar ai cantieri digitali della valle del silicio, dove si lavora all’edificazione dell’uomo che sarà. Accostato senza cedere alle semplificazioni, quel racconto ha ancora molto da dire al nostro presente frammentato e incerto. Occorre innanzitutto rileggere i nove versetti del Genesi in cui si articola: “Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: ‘Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco’. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: ‘Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra’. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: ‘Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro’. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra”. Non c’è che questo, riguardo all’edificazione della torre di Babele, nel testo biblico: la comunità umana che parla la stessa lingua si unisce, in modo concorde, per costruire una città e una torre che tocca il cielo e per “farsi un nome”, un’opera “non impossibile” che viene però fermata dal Signore, che “scende” – fatto non secondario – e assegna la nota punizione della confusione delle lingue. Il Midrash, il corpo di commentari della tradizione ebraica, aggiunge altri elementi significativi su quest’impresa: nel gigantesco cantiere i lavoratori addossano ordinatamente mattoni grandi come esseri umani, ciascuno dei quali porta inciso il nome di chi lo depone, “come la firma su un decreto”. Nel corso di quarantatré anni di frenetico lavoro gli uomini di Babele depongono seicentomila mattoni, raggiungendo un’altezza di diecimila miglia “senza essere ancora arrivati a destinazione”, cioè senza avere raggiunto il cielo. La scena descritta è quella di un cantiere operoso ed efficiente, dove anche donne, anziani e bambini svolgono le loro mansioni di supporto ai lavoratori con diligenza, poiché “non erano pensabili defezioni né rallentamenti nel ritmo di lavoro”.
In nome di un comune progetto totalizzante e monolingue, gli uomini hanno dimenticato le loro stesse vite, i loro desideri
Il primo fatto degno di nota è che gli uomini sono a tal punto intenti nell’opera di costruzione che trascurano o dimenticano del tutto ciò che accade al di fuori del loro lavoro: “Se una donna era colta da doglie, si distraeva il tempo necessario a tagliare il cordone ombelicale e legarsi al petto il neonato. Poi, col bimbo in collo, tornava ai suoi mattoni. Se tutto andava bene, e nessuno ne dubitava, i figli avrebbero ereditato lo scettro di un mondo nuovo e avrebbero comandato agli astri, alla pioggia, al sole, ai venti, alle piante e agli animali; eppure non si trovava il tempo per dare il benvenuto nel mondo a questi futuri superuomini”. Il disinteresse per gli uomini che costruiscono, in favore della costruzione, è documentato con potenza narrativa: “Ormai occorreva più di un anno per arrivare in cima e un anno esatto per tornare giù. Se un uomo si feriva o cadeva da quell’altezza, nessuno ci faceva caso, ma se si rompeva o andava perduto un mattone, tutti piangevano perché sarebbero dovuti passare più di due anni prima di poterlo sostituire”. Scrive Petrosino: “La costruzione della Torre ha così preso il sopravvento, o come si dice con un’espressione in questo caso quanto mai appropriata: ha preso la mano”. In nome di un comune progetto totalizzante e monolingue, gli uomini hanno dimenticato le loro stesse vite, i loro desideri, hanno messo nel retrobottega della memoria le naturali esigenze imposte dal nascere e dal vivere. Il morire è diventato un accidente passeggero, mentre il vero male da scongiurare è il rallentamento di quel processo di edificazione su cui si è investito e “sovrainvestito”, come dice il professore. Ancora: “A dispetto dell’indicazione divina non è dunque più l’uomo a nominare/dominare, ma è la Torre: qui, vera perversione dell’architettura o se si vuole architettura stessa della perversione, è sempre e solo la costruzione ad esercitare il suo potere sul costruttore”. Il prevalere della costruzione sui costruttori è il centro del dramma babelico.
Ridotti ad artefici del costrutto, dati spersonalizzati che scorrono nelle arterie del network, gli abitanti di Babele si sono dimenticati di loro stessi
Non è difficile accennare un parallelo con le architetture digitali intorno a cui il mondo di oggi si affanna. Nel suo anno più difficile dalla fondazione di Facebook, l’anno della disillusione, Mark Zuckerberg ha dovuto presentare agli utenti e perfino al Congresso americano le scuse per una serie di errori e manchevolezze riconducibili a un unico capo d’imputazione: l’azienda non è stata in grado di controllare ciò che avviene all’interno della mastodontica costruzione in cui brulicano oltre due miliardi di utenti attivi. Orde di troll russi si muovono con intenti malevoli, sfruttando canali legali creati dal network, account fittizi propagano fake news a scopo propagandistico, gli algoritmi che personalizzano i contenuti pescano in pozzi infidi, allargando e amplificando, anche in modo preterintenzionale, falsità, miti, distorsioni, mezze verità. Di più: il sospetto, che a questo punto è più di un’ipotesi, è che la tentacolare macchina globale del social non sia soltanto incontrollata, ma incontrollabile. Una considerazione simile si può fare anche per i pilastri che sorreggono l’intero edificio. Il codice di Facebook, come di molte altre compagnie simili, è un intricato agglomerato che nessun ingegnere è in grado di gestire e controllare. E’ un fascio fatto di innumerevoli fili intrecciati, un dado dalle infinite facce, le migliaia di persone che vi hanno lavorato, vi lavorano e vi lavoreranno attorno considerano e agiscono soltanto su minuscoli brani che sono parte di un tutto impossibile da abbracciare anche per l’occhio all’apparenza onnipotente degli Zuckerberg o dei Larry Page, ovvero dei creatori e degli architetti supremi di ambiziosi edifici fatti – altra analogia – con mattoni che portano le nostre firme: i dati personali. Nella piana di Sennaar, come nella Silicon Valley, “l’identità dell’uomo si confonde con quella del mattone: è il mattone ad avere un nome ed ogni nome è il nome di un mattone”.
Facebook non è stata in grado di controllare ciò che avviene all’interno della costruzione in cui brulicano oltre due miliardi di utenti
Appoggiandosi su Hegel, Dante, Von Balthasar, Derrida e su un solido apparato di studi biblici, Petrosino nota poi che a Babele non c’è in atto alcuna discordia. Di norma nella Bibbia l’allontanamento dell’uomo dal rapporto con Dio, l’idolatria, sfocia in una scena di violenza, si manifesta con il litigio, l’inimicizia, la rivalità, fino all’omicidio e alla strage, che puntualmente Dio punisce. A Babele non accade nulla di tutto ciò. Il lavoro procede nel modo più armonioso, guidato da un nobile intento comune che non viene posto in discussione. Il motto dei suoi laboriosi abitanti potrebbe essere: “Don’t do evil”, dove il male è tutto ciò che nuoce alla costruzione. “La Torre da essi costruita – scrive il professore – alla fine prende il sopravvento e domina sugli uomini stessi. Affinché questo dominio si produca non sono necessari né il potere né la malvagità di qualcuno, è invece sufficiente, magari per realizzare un’impresa grandiosa, dimenticarsi di sé, del proprio desiderio, dell’altro e abbandonarsi, con la promessa di un qualche ‘alleviamento’ a quella attività macchinale a cui compete, come genialmente ha riconosciuto Nietzsche, ‘l’assoluta regolarità, la puntuale irriflessa obbedienza, l’acquisizione una volta per tutte di un determinato modo di vivere, il riempimento del tempo, una certa autorizzazione, anzi una certa costrizione educativa all’impersonalità’”.
Nel racconto di Babele “non si parla di colpa, nessuno condanna nessuno, la collera divina non viene menzionata” (Petrosino)
Qui s’innesta un secondo punto: nel racconto di Babele “non si parla di colpa, nessuno condanna nessuno, la collera divina non viene menzionata”. La versione a fumetti del racconto, semplificata fino alla totale banalizzazione, dice che gli abitanti di Babele hanno sfidato il potere di Dio con un’opera tracotante, intrapresa allo scopo di spodestarlo dal trono celeste, e questi, furibondo per il loro sfrontato tentativo di emancipazione, ha castigato con foga vendicativa la loro hybris rendendo difficile, se non impossibile, la comunicazione. Se di questo si tratta, non se ne trova traccia nel testo biblico né nelle altre fonti. Contrariamente a quanto avviene in molti altri luoghi dell’Antico testamento, il Signore non è incollerito con gli abitanti di Babele, non si fa menzione della sua ira. Nel Midrash, al contrario, va in scena un poetico dialogo in cui sono gli angeli che tentano di convincere Dio a intervenire per fermare gli uomini accecati da questa “fatica insensata” (“tu sai che continueranno a guardare in su, Eterno!”), mentre il Signore in qualche modo resiste ai loro suggerimenti, spiegando loro che i lavoratori “sono in pace uno con l’altro”, “faticano di loro spontanea volontà” e la Legge non prevede punizioni per chi costruisce di comune accordo. Petrosino ordisce una intelaiatura di riferimenti per dimostrare – passo ulteriore – che l’Eterno guarda perfino con simpatia l’intento che muove i costruttori, ne riconosce la dignità, non teme come una minaccia la loro opera. Ciò che fa scattare la discesa divina è, appunto, che la costruzione ha preso il sopravvento sulla vita dei costruttori: “L’indifferenza nei confronti del singolo costruttore e la passione per il mattone sono le più rigorose conseguenze che il soggetto deve avere il coraggio di trarre in ordine alle necessità di un’impresa che viene inesorabilmente a occupare l’intera scena dell’operare umano: in questo luogo e a partire da questo sapere il valore del costruttore sta tutto e solo nel suo partecipare all’atto del costruire e nel suo essere artefice del costrutto”. Accettando la riduzione a partecipi e artefici del costrutto, dati spersonalizzati che scorrono nelle arterie di un network, gli abitanti di Babele si sono dimenticati di loro stessi: “Volendo mettere fine alla confusione, alla fine l’uomo s’è confuso”, commenta Petrosino. Nel testo della tradizione ebraica Dio dice: “Li vedo. Si sono trasformati in macchine puntate in un’unica direzione. Li ho lasciati fare finora perché non si ingannano e non si uccidono a vicenda, ma che pace è questa in cui si è perso il valore della vita umana? Venite, scendiamo fra questi sciocchi, confondiamo le loro lingue e costringiamoli a pensare”. Quando pronuncia queste parole, il Signore non è iracondo, è “rattristato”.
L’intervento divino conduce al punto finale del breve percorso che collega il tentativo di Babele alle impalcature contemporanee montate per avvicinarsi al cielo: il castigo. Di che natura è la punizione inflitta a Babele? I costruttori, che fino a quel momento avevano trasmesso con un idioma universale le uniche informazioni meritevoli di essere comunicate, quelle cioè che riguarda il lavorio intorno alla torre, si trovano d’improvviso smarriti sui termini elementari: “Uno chiede un mattone, e l’altro gli porta della calce: il primo insorge contro il secondo e gli rompe il cranio”, scrive un commentatore. E’ attraverso l’ostacolo del linguaggio, tuttavia, che i costruttori si ritrovano a dover considerare l’altro che si trovano accanto, e che fino ad allora era stato un impersonale ingranaggio inserito in un’organizzazione di mirabile efficienza. Da pezzo inerte della scenografia umana, al quale dedicare distrattamente un like, l’altro diventa un soggetto da considerare, se non altro per ottenere lo strumento giusto per disporre un nuovo mattone. La differenza linguistica diventa così, quasi paradossalmente, lo strumento di una comunicazione che si era interrotta quando la costruzione aveva preso il sopravvento sui costruttori. La punizione non è arbitraria, ma corrisponde all’intento divino di “costringerli a pensare”, mentre l’ossessione della torre li aveva portati a rinunciare al pensiero, li aveva ridotti a meccanismi seriali, brandelli informativi in un sistema ispirato a nobili fini e condannato a vanificarli. In questo senso, il castigo inflitto a Babele sa più di liberazione che di schiavitù.