Volume, velocità, varietà: è questo che dà valore a dati destrutturati che di per sé non hanno valore, e li rendono disponibili agli usi più disparati (foto LaPresse)

Il prodotto sei tu

Franco Debenedetti

La deriva narcisistica dei social e la domanda se sia giusto porre vincoli al desiderio dell’esibizionista

"If it’s free, you are the product". Quante volte l’abbiamo sentita questa battuta, non parliamo dopo la vicenda Facebook. Fattualmente sbagliata (il rasoio Gillette lo regalava, ma il prodotto erano le lamette, non la faccia dei clienti), vecchiotta (lo si diceva già della televisione generalista), è soprattutto ingannevole, svia l’attenzione dalla questione veramente rilevante: chi è “you” e che cosa vuole? Perché ogni “you” pensa se stesso come “Me”, nel senso usato da Tom Wolfe in The Me Decade and the Third Awakening. La tesi che sviluppa in quel famoso articolo del 1976 sul New York Magazine è che nel diffuso benessere degli anni 70, a partire dalla come cultura libertaria e psichedelica (anche nel senso dell’acido) di hippy e studenti, si sviluppa “la più grande era di individualismo della storia americana”, paragonabile alle due precedenti, quello contro la religione e in generale l’autorità coloniale inglese, e quella che nelle crisi dell’800 permise il formarsi di comunità nel Midwest e nel West.

 

Diversa per punti di innesco, modalità, tempi, una “grande era di individualismo” si è avuta un po’ dovunque in occidente, quindi anche da noi. Lo straordinario progresso economico e tecnologico del primo ventennio postbellico – scrive Giovanni Orsina nel suo recente La democrazia del narcisismo (Marsilio) – ha alimentato le aspirazioni palingenetiche degli anni 60, generando l’illusione che la completa liberazione dell’individuo da qualsivoglia vincolo morale e materiale fosse a portata di mano; e il narcisismo ci ha portato all’èra dell’incompetenza e al populismo (Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici, Luiss). Il narciso, il nuovo soggetto: “Me, Me, Me”.

 

Lo specifico dell’America è che la Bay Area, più precisamente i sobborghi di San Francisco sono stati, per ragioni forse non casuali, l’epicentro sia della cultura psichedelica sia del computer. Per Steve Jobs è meglio essere pirati che arruolarsi in Marina; il www di Tim Berners-Lee connetterà tutti gli individui del mondo; il computer promette una condizione Pentecostale di comprensione e unità universali. Se nel mondo degli atomi, l’informatica aveva consentito di realizzare il “market of one” senza perdere i vantaggi dell’economia di scala, il mondo dei bit – gratuito perché riproducibile a costo quasi nullo, perfetto, perché tutte le copie sono esattamente identiche, e immediato, perché distribuibile sulla rete – può realizzare tutti i sogni dell’individualista. E quindi dell’esibizionista e quindi del narcisista (che è un esibizionista al quadrato): il selfie come specchio digitale, i social network a riverberare all’infinito parole e immagini. Come immaginare una più perfetta combinazione?

 

E siamo al punto da cui eravamo partiti: se i Four, i quattro nuovi cavalieri dell’Apocalisse, (Google, Apple, Facebook, Amazon) si fanno ricchi vendendo come merce i dati degli utenti, allora l’autorità deve proteggerne la privacy. Ma chi va su un social i suoi dati li vuole esibire, il numero degli amici che li vedono è la misura del suo ego; il like lo mette per farsi notare, il like anonimo è un ossimoro. E’ giusto porre vincoli al desiderio dell’esibizionista? E’ possibile farlo per 2 miliardi e duecento milioni di esibizionisti? Certo, forse l’esibizionista stesso vuole dei limiti al suo mostrarsi, certo ha diritto a modificare la sua immagine e quindi a cancellare quelle del passato: ma quando si tratta di definire in norma principi generici, ci si mette nei guai. L’avvento di una nuova tecnologia di comunicazione, è la famosa tesi di Marshall McLuhan, modifica i rapporti sociali; se l’invenzione della stampa a caratteri mobili ha dato luogo alla riforma e alla guerra dei 30 anni, nell’economia dei dati penseremo mica di cavarcela torchiando Zuckerberg per due giorni in Senato? E neppure imponendo norme più severe contro le fake news, trasformando il consenso all’uso dei nostri dati in una corsa ad ostacoli, e ponendo filtri all’accesso da pare dei ragazzini (dandogli così il piacere di eluderli). Come già l’homo gutenbergensis, anche l’homo digitalis deve affrontare un cambiamento profondo delle sue sensibilità, dei suoi metri di giudizio, in senso lato, della sua morale.

 

“You are the product”: i dati sono il cuore del problema. Sui dati è costruita l’economia digitale, sui dati vertono le critiche di fondo che le vengono mosse. Google nel ranking, Amazon nelle raccomandazioni tramite algoritmi, Facebook nei News Feed: i loro modelli industriali si basano tutti sui dati, sull’idea che con sufficienti dati sia possibile vedere correlazioni e trovare tracce. Di qui le accuse: che i dati sono la base di un’invisibile discriminazione, usata per influenzare le nostre scelte, le nostre abitudini di consumo e intellettuali; che le radiografie dell’io personale sono usate come se queste fossero una commodity da commerciare in un mercato, vendute e comperate senza il consenso dell’interessato; che i dati rendono possibile realizzare il sogno del capitalismo, attivare il desiderio di consumare, rendendoci più malleabili, più facili da conquistare e da convincere. Le raccomandazioni di Amazon diventano acquisti, le pubblicità di Google diventano click, e questi moneta. Sono il petrolio del XXI secolo.

 

I Big Tech avrebbero prodotto i loro imperi polverizzando la privacy, e continuerebbero rendendo le loro tecniche sempre più penetranti, nulla rimarrà nascosto del nostro ritratto. Si possono dettare norme da rispettare, ma così si aggiungono solo oneri che non modificano il modello di business. Quando le minacce alla privacy e al mercato concorrenziale sono ormai la stessa cosa, il problema del monopolio ha cambiato forma. Questo tema, che ha dominato la politica americana per generazioni, il timore cioè che la concentrazione di potere sia un pericolo per la libertà e per la democrazia, appare depotenziato. Chi accusa i Big Tech usa la parola monopolio non nel senso tecnico, ma in quello che ha avuto, nella retorica politica, nel connotare in senso lato aziende dominanti con poteri perniciosi; e quindi lamenta che le leggi antitrust siano diventate così asettiche, tecnicamente e moralmente, da aver poco da dire sulle società dominanti del nostro tempo. A metà del secolo scorso la concentrazione economica cessa di essere ragione di preoccupazione: per Robert Bork (Il paradosso dell’antitrust) deve essere che i prezzi scendano, obiettivo è il benessere del consumatore. Nel 2004 il giudice Antonin Scalia scrive la “majority opinion” per cui “il mero possesso di potere monopolistico e la concomitante imposizione di prezzi monopolistici, non è di per sé illegale, ma è un importante elemento del sistema di libero mercato”. Non ci fossero stati Bork e Scalia, sostengono i nemici dei Big Tech, Google Amazon e Facebook sarebbero perseguiti come monopoli, e spaccati come la Standard Oil da Theodore Roosevelt, e più tardi l’AT&T: cioè spaccati. Invece come sostenere che i Big Tech riducono il benessere dei consumatori, se i servizi che forniscono sono gratuiti? Come accusarli di monopolio, se Samsung vende più smartphone di Apple, iOS se la vede con Android, Windows con Linux, e per contrastare Amazon si uniscono i giganti, Walmart e Sainsbury? Nella nostra legislazione, l’antitrust agisce ex post, non disegna il mercato secondo i propri criteri. A Bruxelles la commissaria Vestager vorrebbe vietare l’acquisizione di Shazam da parte di Apple, non perché potrebbe ravvisarsi come costituzione di una posizione dominante sul mercato della musica, ma per la quantità di dati, di localizzazione, di scelte effettuate in passato, che Apple così acquisirebbe. Come individuare il mercato di riferimento, se i concorrenti temibili sono solo in Cina, e in America si fan concorrenza tra di loro?

 

L’economia dei dati è ben di più di tutto questo. Le informazioni sono sempre state parte della realtà d’impresa e dell’intero mercato: a fare dei dati il motore della quarta rivoluzione industriale sono il loro volume dei dati, la velocità con cui vengono selezionati, la varietà degli insiemi da cui si estraggono correlazioni e inferenze. Volume, velocità, varietà: è questo che dà valore a dati destrutturati che di per sé non hanno valore, e li rendono disponibili agli usi più disparati: dalla gestione dei processi produttivi al controllo del funzionamento delle macchine, dalla ricerca di farmaci alla caccia di particelle subatomiche, dalle assicurazioni alla finanza, alle infinite applicazioni dell’intelligenza artificiale. In ognuno di questi campi Big Data oltre che fornire soluzioni porta criticità (basta pensare ai dilemmi morali della guida automatica). Ma il punto di frizione è un altro: i Big Four si fanno ricchi vendendo a caro prezzo le informazioni su di te. “You are the product”.

 

E pensare che è dai primi anni 2000 che Jean Tirole e altri hanno dato fondamento teorico al modo di funzionare dei mercati a due versanti, delle carte di credito, delle agenzie matrimoniali, della televisione commerciale. Questa esiste perché vendendo ai pubblicitari gli occhi degli spettatori, può offrire programmi gratuiti. Tutto quel che si può fare è cercare di accoppiare il singolo programma col probabile tipo di spettatore: nel mondo degli atomi la pubblicità è erogata a pioggia, o innaffiata con l’idrante. Nel mondo dei bit invece la si può mirare con la precisione di un raggio laser. Il dato del proprio IP, le infinite tracce che lasciamo, volontariamente con un like, o senza pensarci consultando una mappa stradale, di per sé sono senza valore: a conferirglielo è l’elaborazione, la “profilatura” dell’utente. Non c’è limite alla selettività e alla precisione che si vuol raggiungere, basta aumentare il volume e accrescere la varietà dei dati. Per l’azienda, pubblicità più mirata e quindi potenzialmente più efficace; per il consumatore, informazioni più precise e quindi potenzialmente più utili.

 

Ma così vengono a sapere tutto di noi, sono loro il Grande Fratello! C’è contraddizione tra temere i Big Tech come i protagonisti della distopia di Orwell e incolparli di accumulare troppa ricchezza. Infatti per restare ricchi devono continuare a guadagnare, offrendo app che gli utenti trovino vantaggiose. Devono evitare di perdere: se fornissero i dati dei nostri movimenti fisici a un coniuge geloso, peggio ancora se rivelassero quelli dei nostri movimenti finanziari, il loro castello gli crollerebbe addosso in un amen. E’ la loro credibilità la contropartita dell’immenso valore che gli attribuiscono gli investitori. Per questo Apple ha resistito alle ingiunzioni di 11 tribunali americani perché disinstallasse dagli smartphone dei terroristi dell’attacco di San Bernardino il dispositivo che protegge dai tentativi di hackeraggio. Google gode di una fiducia e di una credibilità quale nessuna istituzione: circa una domanda su sei tra quelle poste al motore di ricerca non era mai stata posta prima. Facebook ha visto da vicino l’abisso che si spalanca se viene a mancare la fiducia, di utenti e di azionisti, ha sperimentato quanto rapida possa essere la reazione degli utenti. E’ la ricchezza dei Big Tech che ci protegge. I Grandi Fratelli sono invece gli stati, perché a loro non interessa guadagnare: vogliono controllare.

 

Proprio la vicenda Facebook-Cambridge Analytica ha attirato l’attenzione su un tipo di profilazione per così dire di secondo livello, basato non sulle nostre scelte, di acquistare, di informarci, di comunicare, ma sulle caratteristiche, psicologiche e culturali, per cui lo facciamo. Perfino il narcisista, anche se sa tutto sulle teorie behaviouristiche, è perplesso a sentirsi denudato. Eppure da tempo tecniche di questo tipo sono largamente in uso nella ricerca del personale, nella ricerca motivazionale applicata al design e alla pubblicità. Nel 1957 Vence Packard denunciava i “persuasori occulti”. Al solito a far la differenza tra mondo degli atomi e mondo dei bit sono il volume dei dati, la varietà delle fonti, la velocità di elaborazione che consentono di progettare sperimentare indirizzare i messaggi con precisione prima impensabile.

 

Quello che appare più inquietante è che queste tecniche possano essere usate non per scegliere una saponetta ma per eleggere un capo politico. A dire il vero, inquietante dovrebbe essere il contrario, cioè escludere le scelte politiche dall’economia dei dati. Le elezioni, cioè la possibilità di sostituire in modo pacifico i governanti, sono l’essenza stessa della democrazia. E la regola base per chi affronta una campagna elettorale è di non sprecare tempo, attenzione e soldi per parlare ai convinti, e cercare invece di convincere gli incerti e spostare gli elettori marginali dei partiti avversari. Vietare l’uso di tecnologie che consentono di individuarli, e di indirizzare loro messaggi personalizzati, ritagliati sulla loro personalità, sarebbe quindi un ingiustificato impedimento al principale strumento democratico. Oltretutto già lo si fa largamente, “con l’idrante”: perché proibire di farlo in modo efficace, “con il laser”? Certo, per la propaganda elettorale ci vogliono regole specifiche: in Italia è fissato un tetto a quanto si può spendere per la campagna elettorale, nessun paese tollera un intervento straniero diretto. E’ tuttora oggetto di investigazione federale se la vittoria di Trump sia stata favorita da una Russian connection usando i sistemi del mondo degli atomi; mentre è per ora solo un sospetto che siano stati i mezzi del mondo dei bit manovrati da Cambridge Analytica a farne un “prodotto”.

 

Vietare o limitare severamente l’uso della profilatura per inviare messaggi volti a influenzare elettori svegliati o indecisi sarebbe grave non solo in sé, ma per ciò che rivela. Prima di tutto perché, come tutti i paternalismi, ha bisogno di sottovalutare quelli che vorrebbe proteggere, attribuendo riflessi pavloviani a chi vive nel più ricco sistema informatico della storia umana, trattando un attivo frequentatore come fosse un passivo ricettore; rinunciando ad indagare la differenza tra modo efficiente di indirizzare i messaggi, e modo efficace di tradurli in comportamenti. E poi perché, la sopravvalutazione della forza del meccanismo maschera l’importanza del messaggio politico, della coerenza con la storia di chi lo trasmette e con il presente di chi lo riceve. E infine perché attribuendo i risultati elettorali al microcosmo di una malcompresa psicologia non valuta la potenza dei fenomeni che li hanno prodotti. The Electoral Consequences of Rising Trade Exposure è il titolo di un paper di David Autor in cui magistralmente dimostra come il polarizzarsi degli elettorati che hanno dato la vittoria a personaggi e a scelte populiste sia una conseguenza della globalizzazione. Se, come è possibile, al China shock seguirà un Silicon Valley shock, le conseguenze saranno per gli effetti disruptive della rivoluzione digitale, non per l’efficacia dei messaggi subliminali di qualche povero untorello.

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