Xiaomi story
Debutta in Borsa l’azienda tech simbolo della nuova Cina, spregiudicata e brillante. Mille prodotti e un ceo carismatico all’ombra della trade war
Negli ultimi anni, e fino all’inizio del 2018, Xiaomi è stata la marca di telefonini più venduta tra quelle non vendute in Europa. Per anni, migliaia e migliaia di consumatori europei (impossibile quantificare il numero esatto) hanno comprato prodotti di Xiaomi, la startup tecnologica cinese, senza che questi fossero ufficialmente venduti nei loro paesi. Per farlo si affidavano a siti semisconosciuti di importatori cinesi, sobbarcandosi diversi rischi: quello di beccare una fregatura, il fatto che la garanzia fosse invalidata, la possibilità che spesso il prodotto arrivasse in lingua cinese, e fosse necessario fare complicate operazioni per impostare la lingua italiana, o quanto meno inglese. Chi scrive ha comprato un annetto fa un computer portatile Xiaomi con Windows tutto in mandarino, e ha impiegato una notte intera per reinstallare il sistema operativo in un più palatabile inglese. Insomma: migliaia di persone in Europa hanno corso rischi economici e si sono dati un gran daffare per poter avere i prodotti tecnologici di un marchio cinese mai sentito dal grande pubblico. Infine, quando negli scorsi mesi Xiaomi ha aperto alcuni negozi ufficiali in Europa, dapprima a Barcellona e poi a Milano, si sono scatenate scene che di solito sono associate con Apple: code davanti ai negozi, youtuber assatanati.
Lei Jun ha fondato Xiaomi nel 2010 e nel 2014 era il produttore di smartphone più desiderato. Poi la caduta e la risalita
Xiaomi (si pronuncia sciao-mi, con la “sci” di scienza) non eccita soltanto i consumatori. Lunedì prossimo, il 9 luglio, farà il suo debutto (Ipo, Initial public offering) alla Borsa di Hong Kong, e sarà la più ricca quotazione di un’azienda tecnologica cinese dai tempi di Alibaba. Questa eccitazione in gergo si chiama “hype”, termine americano che indica l’attesa spasmodica per un prodotto, un evento, un annuncio. Quando sta per uscire un nuovo iPhone, tra gli appassionati si crea moltissimo hype. Se le finali del campionato Nba sono molto combattute, c’è molto hype per la partita decisiva. Creare questo genere di aspettative è una tecnica di marketing piuttosto basilare, ma Xiaomi, fin dalla sua fondazione nel 2010, ha trasformato l’hype in un’arte.
Nel 2015 Clay Shirky, professore della New York University ed esperto di tecnologia, ha pubblicato un libriccino intitolato “Little Rice” che è ancora oggi una delle migliori cronache dell’ascesa di Xiaomi (little rice, piccolo riso, è la traduzione letterale di xiaomi). Il libro si apre con un aneddoto personale: nel 2013 Shirky si trovava a Shanghai per tenere alcuni corsi nella sede locale della sua università. Aveva bisogno di comprare un cellulare nuovo, e senza pensarci troppo ha preso il primo smartphone con un bel design che ha trovato in un supermercato. Sull’apparecchio c’era scritto: Mi3. Shirky non aveva idea di che smartphone fosse. Quando i suoi studenti cinesi gliel’hanno visto in mano, però, sono stati presi da un’eccitazione inconsueta. “Dove l’hai preso?”, gli chiedevano. Sapevano già di che smartphone si trattasse: lo Xiaomi Mi3 era in quei mesi il cellulare più desiderato di tutta la Cina, tanto che l’azienda non faceva in tempo a produrne di nuovi che subito andavano esauriti. Shirky, con fortuna inconsapevole, si era comprato al supermercato un pezzo di hype, e per qualche giorno il professore occidentale quarantenne si trasformò in una star tra i suoi studenti cinesi diciottenni. Xiaomi era stata fondata pochi anni prima, nel 2010, da Lei Jun, imprenditore carismatico attivo nel campo della tecnologia cinese fin dagli anni Novanta. La fondazione di Xiaomi fu deliberata: non ci fu, come narrano alcune mitologie tech, un ragazzetto geniale che a forza di programmare chiuso nel garage di casa costruisce un impero. Al contrario, Lei Jun era un imprenditore esperto e lungimirante che capì, nel 2009, che la Cina sarebbe diventata la prima società “mobile first” del mondo, che gli smartphone sarebbero stati uno dei mercati più lucrosi della storia, e che studiò a tavolino un piano per ricavare il massimo dalle circostanze. Xiaomi – che inizialmente produceva soltanto software per smartphone, e dopo qualche tempo cominciò la produzione dei device – sviluppò una base di utenti e sostenitori entusiasti grazie a tecniche di marketing innovative e a un’attenzione spasmodica alle esigenze del cliente. I Mi Fan (così si chiamava la comunità) svilupparono un attaccamento esclusivo e geloso nei confronti del marchio. Ogni nuovo annuncio era accolto con entusiasmo messianico. Gli smartphone di Xiaomi andavano tutti esauriti nelle prime ore di vendita. Quando Lei Jun, con t-shirt nera e jeans, appariva sul palco per presentare nuovi prodotti, era osannato come un profeta. Ricorda qualcosa?
A inizio anno l’azienda sperava in una quotazione di 100 miliardi di dollari, poi ha dovuto ridimensionare le aspettative
Quando, nel 2009, Lei Jun decise di lanciarsi nel mercato degli smartphone, si guardò intorno e decise di prendere ispirazione dal migliore in circolazione – il primo iPhone era stato lanciato giusto un anno prima. “Prendere ispirazione” è un eufemismo. Nei primi anni pionieristici di Xiaomi, quando la conoscenza della scena tecnologica cinese era ancora scarsa all’estero, l’azienda copiò Apple senza farsi troppi scrupoli: nel design degli smartphone, con gran scorno di Jony Ive, nel look stevejobsiano di Lei Jun, perfino nell’aspetto grafico delle slide di presentazione durante i keynote. Tutto era simile tranne il prezzo: gli smartphone di Xiaomi costavano sensibilmente meno, quasi la metà degli iPhone, eppure erano prodotti di qualità, costruiti bene, desiderabili. Lei Jun aveva trovato la formula perfetta: aveva dato ai consumatori cinesi, che specie in quegli anni ancora non si potevano permettere gli iPhone, un assaggio di cosa voleva dire far parte di una comunità esclusiva in stile Apple. Nel 2014, Xiaomi era il primo produttore di smartphone di tutta la Cina. Ma il miracolo è durato poco.
Anzitutto, perché la concorrenza locale ha appreso immediatamente la lezione di Lei Jun. Aziende come Oppo e Vivo (possiamo inserire nel novero anche Huawei, che tuttavia è un conglomerato molto più complesso) hanno cominciato a produrre smartphone come quelli di Xiaomi: stilosi, di qualità, belli come gli iPhone eppure molto più economici. Le quote di mercato hanno iniziato a ridursi. La stessa Apple, inoltre, ha cominciato a muovere il suo gigantesco muscolo finanziario e di marketing contro il concorrente. Tramite campagne pubblicitarie brutali, e complice l’aumento costante del tenore di vita della borghesia cinese, negli ultimi anni gli iPhone sono passati da essere prodotto di lusso a prodotto relativamente di massa. Oggi, nelle metropoli come Pechino e Shanghai, è più facile vedere un iPhone che un telefono di Xiaomi. Appena un anno dopo aver raggiunto la vetta, nel 2015, Xiaomi era già un’azienda in declino, con la stampa specializzata che si chiedeva: cosa diamine è successo?
Lei Jun, a quel punto, ha deciso di cambiare totalmente il volto di Xiaomi, operando la prima grande rivoluzione. Due mosse: internazionalizzazione e diversificazione. La strategia di internazionalizzazione è semplice: Xiaomi è entrata nel mercato indiano, poi in diversi paesi del sud-est asiatico, infine in Europa, conquistando quote di mercato crescenti. La diversificazione è più sofisticata. Il modello di Xiaomi rimane Apple: Lei Jun non ha mai smesso di desiderare che la sua creatura abbia la stessa presa sull’utente che ha l’azienda di Cupertino, lo stesso dominio sulle vite dei consumatori. Ma anziché ottenere questo risultato con il fascino del marchio e soluzioni che incatenano l’utente all’ecosistema di Apple, come l’App Store, Lei Jun ha deciso di usare la forza bruta della manifattura. Negli ultimi anni, Xiaomi ha cominciato a produrre qualunque cosa abbia anche un minimo rapporto con la tecnologia. L’azienda è passata da lanciare un solo modello di smartphone all’anno a produrre: una gamma sterminata di smartphone (attualmente c’è in vendita una quindicina di modelli diversi), computer con relativi accessori, tablet con relativi accessori, una gran quantità di batterie esterne, pile ricaricabili, quattro modelli di smartwatch per adulti, due modelli di smartwatch per bambini, una gamma smisurata di tracker sportivi indossabili, diversi tipi di cuffie bluetooth, infiniti tipi di auricolari con e senza cavo, molti modelli casse bluetooth più tutta una serie di accessori audio. E ancora: televisori, una fotocamera mirrorless, diversi tipi di videocamere tipo GoPro, una quantità imbarazzante di videocamere connesse per la sicurezza in casa, droni, un set amplissimo di accessori per la domotica, tvbox, occhiali per la realtà virtuale, scarpe connesse, giocattoli connessi, valigie smart, monopattini elettrici, piccoli segway, zaini, cuscini, accessori per l’ufficio, biciclette elettriche, alcuni modelli di router, spazzolini da denti elettrici, prese della corrente, purificatori d’aria connessi, robot per la pulizia tipo Roomba, lampadine con wifi, lampade da scrivania, bilance connesse, accessori per misurare la pressione sanguigna, accessori smart per il giardinaggio, una cuociriso.
Le somiglianze (eccessive) con Apple dell’èra pionieristica, la strategia degli infiniti prodotti, dalle biciclette alle cuociriso
L’elenco è incompleto (mancano ancora tantissimi prodotti) e probabilmente impreciso: Xiaomi si avvale di alcune aziende-partner per la produzione di certi device ed è impossibile tenere traccia di tutto. Ma dovrebbe rendere l’idea di che razza di azienda è diventata negli ultimi anni. Non pensate però che Xiaomi si sia trasformata in una di quelle fabbricacce cinesi che producono accessori di plastica scopiazzati e di bassa qualità. Il secondo miracolo di Lei Jun è stato questo: il catalogo dei prodotti di Xiaomi è imbarazzante per quanto è ampio, ma nella sua quasi totalità i prodotti sono ben disegnati, di alta qualità e venduti a un prezzo concorrenziale. Nel campo degli smartphone, per esempio, l’azienda ha fatto vera innovazione, presentando in tempi non sospetti il primo telefonino quasi a tutto schermo, il Mi Mix. Questo cocktail di prodotti ha spopolato in Cina e nel resto dell’Asia, India e sud-est asiatico in primis, e da qualche tempo, dicevamo, è arrivato anche in Europa. Dopo il crollo del 2015-16, nel giro di tre anni Xiaomi è tornata a essere il quarto produttore di smartphone al mondo – secondo Idc nel primo trimestre del 2018 le vendite sono aumentate dell’87,8 per cento su base annuale –, e nel frattempo il resto del business si è espanso enormemente. I media cinesi hanno iniziato a parlare dell’azienda come di una “fenice”, e se le grandi compagnie tecnologiche americane vogliono una prova di quanto sia diventato alto il livello della manifattura cinese, devono guardare a Xiaomi e preoccuparsi per il loro futuro.
Forte di questa storia pazzesca di successo, caduta e rinascita in nemmeno un decennio, all’inizio del 2018 Xiaomi si è presentata ai mercati circondata da un’attesa enorme per il suo debutto in Borsa – hype, ricordate? L’azienda di Lei Jun, inoltre, aprirà le danze per quella che viene definita la seconda ondata del tech cinese, dopo i veterani Alibaba, Tencent e Baidu. Entro il 2019 dovrebbero fare la propria Ipo altri giganti come Didi-Chuxing, la Uber cinese, Meituan-Dianping, azienda che propone infiniti servizi che vanno dalla finanza alla consegna del cibo in stile Foodora, e Ant Financial, il braccio finanziario di Alibaba. Tutte sono quotate molte decine di miliardi di dollari. Xiaomi, inizialmente, aveva puntato in altissimo per la sua Ipo: la quotazione desiderata era di 100 miliardi. Alla vigilia del debutto, tuttavia, ha ridotto di molto le aspettative, e adesso si prevede una quotazione intorno ai 54 miliardi di dollari. In occasione del debutto in Borsa, Lei Jun ha deciso di rivoluzionare di nuovo Xiaomi, questa volta con un ritorno alle origini che punta molto sul software e sui servizi, in linea con una tendenza generale nel mondo della tecnologia guidata (ancora) da Apple. Nei documenti ufficiali presentati alla Borsa di Hong Kong, Lei Jun ha detto che Xiaomi diventerà una “internet company fondata sull’innovazione”, e ha presentato agli investitori una strategia tripartita, fondata sui tre pilastri dell’hardware, dell’ecommerce e dei servizi internet. Peccato che proprio i servizi, la parte più innovativa della strategia “triathlon” (Lei dixit) abbiano subìto un calo drastico nel 2017, cosa che ha raffreddato gli entusiasmi dei possibili azionisti.
Debuttare in Borsa a tre giorni dall’inizio di una guerra commerciale basata sul predominio tech non rivela un gran tempismo
Gli investitori sono preoccupati inoltre dal fatto che la struttura societaria di Xiaomi è opaca e dominata in maniera quasi dittatoriale da Lei Jun, e temono l’attivismo del governo di Pechino, che ha preteso inizialmente che l’azienda si quotasse in Borsa usando un nuovo schema che avrebbe permesso una doppia quotazione tanto a Hong Kong quanto nella Cina continentale – la pretesa poi è rientrata.
Questo tipo di preoccupazioni è sempre stato presente quando si parla di grandi aziende cinesi. Lo era nel 2014, quando Alibaba si doveva quotare in Borsa e tutti guardavano storto la struttura societaria contorta e impenetrabile che Jack Ma aveva creato intorno a sé. Eppure quella di Alibaba è stata la più grande Ipo della storia, mentre il successo del debutto in Borsa di Xiaomi è messo a rischio. Cosa è cambiato? Diciamo che quotarsi in Borsa a tre giorni dall’inizio di una guerra commerciale epocale e tutta concentrata sul predominio tecnologico tra Stati Uniti e Cina non corrisponde alla definizione di tempismo eccellente. Se la prima ondata tech cinese è stata accolta nel mondo con entusiasmo, la seconda di cui Xiaomi fa parte è vista con sospetto. E Xiaomi, che fa affidamento consistente sul mercato internazionale, non potrà che essere danneggiata se l’avanzamento della guerra commerciale porterà allo sfilacciarsi delle catene di distribuzione. Tutti adesso aspettano il prossimo miracolo di Lei Jun.
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